6 maggio 1980 – Commemorazione alla Camera dei deputati del presidente Josip Broz Tito
Progetto per la conoscenza e la valorizzazione del lascito ideale e documentale.
Realizzato dalla fondazione Gramsci e dalla fondazione Nilde Iotti con il contributo della Struttura di missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
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“Il giorno in cui morì c’era lo sciopero dei giornali. Ci sorprese la quantità di ragazze e ragazzi che affluirono per primi alla Camera, in questa sala, costantemente. Ragazzi che, avendo 16, 18 anni, non avrebbero dovuto saper nulla della sua vita, perché Nilde Iotti aveva finito da sette anni di fare il Presidente della Camera. Era uscita dagli schermi televisivi, dai giornali, dalla polemica politica. Eppure i ragazzi venivano a centinaia. Non venivano accompagnati dai genitori, venivano con lo zaino della scuola. (…) Ebbi l’impressione che noi stessi non avessimo consapevolezza di cosa aveva rappresentato Nilde Iotti per il paese”.
Luciano Violante, cit. in Prefazione, Nilde Iotti. Presidente. Dalla Cattolica a Montecitorio, a cura di Imprenti, F., e Magnanini, C., Biblion, Milano 2010.
“Eravamo giovani e irruenti, con la pretesa di innovare, ma amavamo moltissimo le nostre madri: Nilde, Giglia, Marisa e prima ancora Adriana e Lina. E loro erano sempre con noi, anche quando non erano d’accordo con le nostre idee. Erano capaci di grandi generosità. Come quando Nilde, presidente della Camera, rompendo il protocollo, volle essere la prima firmataria della nostra proposta di legge di iniziativa popolare ‘Le donne cambiano i tempi’ per dimostrare che lei sapeva bene quanto quel tema fosse cruciale per le donne e voleva condividerlo in prima persona. (…) Per questo credo che anche oggi nella politica debba esserci un legame tra le madri e le figlie. Le madri devono sapere quando è il momento di lasciare spazio alle figlie e avere la generosità di trasmettere ciò che hanno imparato anche perché è costato molta fatica. Le figlie devono decidere se riconoscere le madri, se lasciar scattare dentro di sé la curiosità di imparare da loro qualcosa”.
Livia Turco, Madri e figlie, Introduzione a Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020 (1° edizione 2013), pp. XXIII-XXIV.
Così la descrive Lina Wertmuller: “Odora di grande madre, di Buddha. Ha il sapore misterioso di una presenza salomonica. E’ come un grande simbolo”.
Cit. in F. Imprenti, Nilde Iotti. Il lavoro di Presidente, in Nilde Iotti. Presidente. Dalla Cattolica a Montecitorio, a cura di Imprenti, F., e Magnanini, C., Biblion, Milano 2010, p. 97.
Nelle numerose interviste pubblicate sulla stampa periodica emergono i tratti più umani, quasi intimi, di una personalità politica che suscita curiosità e ammirazione:
“D – Onorevole Iotti, fino a che non si è arrivati a questa gran riscoperta degli aspetti più privati della persona, com’erano considerati nel Pci i sentimenti?
R – Non parlerei solo di Pci. Fino a qualche tempo fa sembrava che ne fosse immune il mondo intero. C’era tutta una cultura, un modo di essere che tendeva a sottovalutare i sentimenti, a considerarli come cose del passato… Io ho sempre avvertito che questa era come una mutilazione. Che finiva per darci un uomo non completo, un uomo infelice. Oggi addirittura sui sentimenti si fanno i convegni. Bene, io sono molto contenta che sia stato il mio partito ad avere questa idea.
D – A Milano, al convegno sui sentimenti (…) un operaio è salito sul palco per spiegare che per lui l’amore era solo quello che provava verso gli uomini. Altri hanno parlato della propria confusione sentimentale, della propria ‘impotenza affettiva’ in un momento in cui molte regole erano state distrutte. Una ragazza ha detto che nei sentimenti ‘c’è l’incertezza di cosa chiedere all’altro, perché noi stessi non sappiamo ancora che cosa vogliamo’.
R – Devo dire francamente che questa indecisione, questo sbandamento mi rammaricano quasi come il rigore del passato e mi stupiscono anche. Vuol dire che ancora non si è imparato a essere sé stessi, a essere liberi di fronte alla propria vita. Insomma, quando uno critica certi modelli del passato può anche soffrirne. Però allo stesso tempo deve sentirsi già diverso. Dietro queste incertezze io avverto una trappola che è molto presente nel mondo d’oggi, il bisogno del confessore, che stia lì a sostenerti. Che ti aiuti a non assumerti le tue responsabilità.
D – E dell’amore adesso cosa pensa?
R – Che è una parte essenziale dell’uomo e che senza amore avremmo un uomo molto triste. Naturalmente non parlo solo dell’amore tra uomo e donna. L’amore è il modo di uscire da sé stessi, di legarsi agli altri. E’ un sentimento che ha un contenuto straordinario.
D – Lei chi ama oggi?
R – Questo sentimento lo provo per le idee per cui mi batto. Lo provo per il mio paese, che vorrei vedere diverso da quello che è. Verso mia figlia, i miei nipoti, i miei compagni. E poi, in fondo, verso ogni creatura che incontro. Io avverto sempre di più che siamo tutti parte di un qualcosa di comune, che abbiamo la stessa sorte.
D – Oggi il Pci, il suo vertice soprattutto, condivide questa valorizzazione dei sentimenti? O sono solo alcuni a crederci?
R – Io penso che queste tematiche non siano mai acquisite per sempre. Bisogna lottare ogni giorno per conquistarsele”.
Chiara Valentini, L’amore è vero se è laico, “Panorama”, 13 aprile 1981.
“All’inizio del 1981 la trasmissione televisiva ‘Flash’ presentò i risultati di un’indagine Doxa che aveva chiesto alle italiane quale fosse la donna italiana vivente più simpatica e degna di stima. Nilde Iotti conquistò il primo posto, seguita dalle attrici Sofia Loren e Monica Vitti, in una classifica che elencava per lo più donne dello spettacolo. Sull’onda di questi risultati si moltiplicarono, sulla stampa periodica, le copertine e i servizi esclusivi. Il Presidente della Camera veniva presentato come un modello di successo, di eleganza e di modernità, ma anche di integrità morale, il positivo di una immagine parlamentare sempre più deteriorata dai numerosi scandali”.
F. Imprenti, Nilde Iotti. Il lavoro di Presidente, in Nilde Iotti. Presidente. Dalla Cattolica a Montecitorio, a cura di Imprenti, F., e Magnanini, C., Biblion, Milano 2010, p. 99.
“Era stata eletta nel giugno del 1979… Nell’autunno di quello stesso anno, durante una visita ufficiale a Venezia, Nilde si era riservata un paio d’ore (come suo costume adorava ritagliarsi qualche momento di libertà anche nella più acuta stagione dei terrorismi) per una visita privata, non annunciata, in un museo. Non chiese alcun privilegio nell’accesso, si mischiò alla folla, commentò qualche particolare con un paio di collaboratori. Ad un tratto un gruppo di suorine si accorse della presenza di Nilde. ‘E’ lei, è lei!’, dissero festose correndo ad abbracciarla. Un compagno di quella che allora si chiamava la vigilanza (un ‘di più’ rispetto alla scorta istituzionale) ebbe un moto di stupore, senza far nulla per nascondere un mix di meraviglia e di fastidio. Iotti restituì l’abbraccio e scambiò qualche parola con le suorine in un clima festoso ma rattenuto: si era comunque in un museo, non bisognava disturbare gli altri visitatori. Ma a Nilde non era sfuggita la sorpresa di quel compagno. E allora, più tardi a tavola, gli si rivolse con un sorriso radioso esclamando: ‘Ma sono donne anche loro!’”.
G. Frasca Polara, Nilde. Un ritratto appassionato di un grande giornalista che l’ha conosciuta da vicino, p. 1.
“Io credo di essere stata, e lo dico senza false modestie, certamente fra le protagoniste della battaglia per l’emancipazione femminile. Ma mi sono accorta, leggendo gli articoli che sono comparsi dopo la mia elezione a presidente, scritti quasi tutti da uomini, che il fare politica femminile ancora, per gli uomini, significa non avere fatto politica. E’ come se le lotte, le battaglie politiche fatte con tanto impegno, non siano mai esistite. E questo mi ha amareggiato, mi ha fatto pensare che nonostante tutti i passi avanti che abbiamo fatto come donne la mentalità deve ancora cambiare”.
Cristiana di San Marzano, Intervista con Nilde Iotti, “Annabella”, 12 luglio 1979.
“D – Come giudica lo stato di salute del Parlamento e delle istituzioni?
R – Il Parlamento, le istituzioni, sono espressioni politiche di un paese ed è assurdo pensare che quando un paese è preda di una crisi come quella che scuote l’Italia le sue istituzioni non ne risentano, restino intatte. E’ pura follia pensare alle istituzioni come ‘entità astratte’. Esse sono fatte di uomini, riflettono gli stati d’animo, le difficoltà in cui si dibatte la società: ma soprattutto riflettono il carattere del periodo che stiamo attraversando. Tutto questo vive dentro le istituzioni e le turba profondamente.
D – C’è il rischio che la questione istituzionale venga usata come un diversivo per eludere il problema fondamentale della governabilità, che è e rimane politico?
R – Non vedo i due problemi separati. C’è una crisi economica e non sappiamo che sviluppi possa avere; ed una crisi politica che, accanto al terrorismo, vede nascere un fenomeno più generalizzato e preoccupante: il distacco di grandi masse del popolo dal corpo politico. Non lo capiscono più. Dico allora che le riforme istituzionali sono una delle cose da fare per risanare la situazione italiana. Ma al tempo stesso dico: guai a noi se pensassimo che le riforme costituzionali sono il solo mezzo per uscire dalla crisi. Se così si pensasse credo che crescerebbe la delusione della gente e, in fin dei conti, si aggraverebbe la situazione.
D – Si parla di ritoccare la Costituzione in alcuni punti in cui essa appare inadeguata alla realtà del paese. In altri punti invece la Costituzione è stata totalmente ignorata. Non crede che prima di passare ai cambiamenti si dovrebbe realizzare quello che è stato disatteso?
R – Le rispondo che le modifiche da apportare alla Costituzione – e badi bene, non sono molte – sono quelle che rendono possibile attuare la Costituzione. Il nostro obiettivo deve essere quello di realizzare, come ho già avuto modo di dire, la Repubblica della Costituzione. Insisto su questo punto, ma sottolineo che ci vuole un governo, nel senso più generale del termine, che abbia la volontà di attuare nella lettera e nello spirito la parte più negletta della Costituzione”.
Alberto Stabile, Intervista con Nilde Iotti, “La Repubblica”, 23 marzo 1981.
“Iotti non perse tempo a far capire che intendeva considerare la presidenza della Camera non come un trampolino ma come un fine: per portare avanti vecchie e nuove battaglie, da una posizione di assoluto rilievo e quindi di sicuro ascolto. Così, alle viste di una delle prime uscite ufficiali, a Piombino, riunì i più stretti collaboratori e disse: ‘E’ ora di affrontare il problema delle riforme costituzionali’. Sorpresa fra noi per l’inedita sortita, preoccupazione per gli echi, qualche angoscia per le ricerche. E invece Nilde prese un foglio e – con l’esperienza mai dimenticata di costituente e con il piglio nuovo di presidente dell’assemblea di Montecitorio – vergò sicura alcuni punti con la sua grafia ampia: basta con questo assurdo bicameralismo perfetto, basta con mille parlamentari (‘quanti ne ha la Cina, ma loro sono un miliardo e trecento milioni’), federalismo istituzionalizzato trasformando il Senato in Camera delle regioni e dei poteri locali: ‘Perché il Senato non potrebbe essere come il Bundesrat tedesco?’ (…) Colpì nel segno quel discorso a Piombino proprio per la concretezza delle enunciazioni, per la fisicità delle rappresentazioni, per la semplicità nel porgerle. E per averlo fatto ben prima che Craxi lanciasse la sua Grande Riforma, con largo anticipo sulla vana catena di bicamerali. E colpì proprio perché colse alcune questioni che già allora erano nel comune sentire ma che si esitava a gettare sul tavolo della revisione di una struttura statuale ormai vecchia e non al passo coi tempi, con le esigenze di decisioni rapide e incisive ma che avessero sempre il loro fulcro nel Parlamento”.
G. Frasca Polara, Nilde. Un ritratto appassionato di un grande giornalista che l’ha conosciuta da vicino, p. 5.
“In queste riforme che hanno alla fine radicalmente mutato il regolamento della Camera, c’è una linea coerente in cui ho profondamente creduto e per la quale ho molto lavorato. In sostanza siamo passati da una situazione di irrazionale dispersione della discussione parlamentare e di pressoché assoluta ingovernabilità del tempo da essa richiesto a una situazione che vede razionalizzato e snellito il procedimento legislativo e governabile la sua durata. Non è poco a mio parere. Tutto ciò mette a nudo le responsabilità politiche nell’assumere determinate scelte legislative, o nel non assumerne alcuna”.
Iotti: indispensabile differenziare struttura e compiti delle due Camere, Il Sole 24ore, 17.12.1990, cit. in F. Imprenti, Nilde Iotti. Il lavoro di Presidente, in Nilde Iotti. Presidente. Dalla Cattolica a Montecitorio, a cura di Imprenti, F., e Magnanini, C., Biblion, Milano 2010.
Sempre in quel suo primo discorso da Presidente Iotti delinea la sua interpretazione del concetto: “Il Parlamento, questo altissimo strumento di democrazia, non può e non deve essere superato dai tempi. Esso, al contrario, deve riuscire a guidare questo processo. Non già nel senso di confondere le diverse funzioni degli organi istituzionali dello Stato – ché nessuno più di me, per il mio stesso lontano passato, è convinto che tali diverse funzioni sono presidio di democrazia -, ma nel senso che il Parlamento diventi iniziativa, stimolo, confronto e incontro delle volontà politiche del paese e assolva in questo modo la sua altissima funzione di guida. Fare questo con rigore, con dedizione, con probità significa attuare la Costituzione repubblicana, renderla operante ispiratrice della vita del paese”.
Nilde Iotti. Discorsi parlamentari (1946-1983), Camera dei Deputati, Roma 2003, vol. 01, p. 278-9.
Nel 1987 Craxi propone l’abolizione del voto segreto, cui Iotti è contraria in ragione del fatto che si tratterebbe di una modifica di rilievo costituzionale. Si giunge quindi, nel 1988, a una riforma regolamentare che “stabilì infine che il principio generale cui attenersi fosse quello dello scrutinio palese, con alcune deroghe riguardanti le persone e una serie di articoli della Costituzione in materia di libertà civili, politiche e religiose, a seguito di relativa richiesta di almeno 30 deputati”.
F. Imprenti, Nilde Iotti. Il lavoro di Presidente, in Nilde Iotti. Presidente. Dalla Cattolica a Montecitorio, a cura di Imprenti, F., e Magnanini, C., Biblion, Milano 2010, p. 112.
Nel gennaio del 1980 il cosiddetto “lodo Iotti”, interpretazione del regolamento in occasione della fiducia sui 7500 emendamenti presentati al decreto legge Cossiga in materia di antiterrorismo, inaugura un percorso che trova definizione nella riforma del novembre 1981, che prevede limitazioni di tempo e numero degli interventi e maggiori poteri di programmazione dei lavori in capo al Presidente: “Per battere il forsennato ostruzionismo dei radicali decise, con una ardita ma limpida interpretazione-innovazione regolamentare, che su migliaia di emendamenti il presentatore, e solo lui, poteva parlare una sola volta in caso di fiducia. Ma questo non impedì che alcuni deputati radicali parlassero ciascuno anche 18 ore di seguito. E allora, qualche mese dopo, Iotti propose una serie di rilevanti riforme del regolamento per un ragionevole contenimento dei dibattiti, per creare le condizioni di un confronto fertile, ma anche per la certezza di una decisione. In sintesi, ‘riconoscere – sono parole di Nilde – nel Parlamento la sede del confronto e il centro della vita politica e istituzionale.’ Commenterà più tardi il suo successore al vertice della Camera, Giorgio Napolitano (…): ‘Quest’ultima definizione rappresentava a mio avviso la versione più misurata e sostenibile della formula della centralità del Parlamento. L’equivoco di questa formula stava nell’attribuire al Parlamento una collocazione, nel sistema istituzionale, tale da poter dar luogo a dilatazioni discorsive del suo ruolo, a confusioni e interferenze tra la sfera delle responsabilità di governo e la sfera delle prerogative del Parlamento, a pretese e illusioni di democrazia assembleare: Iotti non alimentò in nessun modo quell’equivoco, e anzi la sua opera di Presidente fu rivolta in senso opposto’”.
G. Frasca Polara, Nilde. Un ritratto appassionato di un grande giornalista che l’ha conosciuta da vicino, p. 6.
Del conflitto permanente con i Radicali costituisce chiaro esempio una intervista con i cittadini a “Radio anch’io”, del 1980:
“D – Onorevole Iotti, che succede alla Camera?
R – La Camera è molto inquieta: rispecchia del resto l’inquietudine del paese. Non esiste una maggioranza di governo, e questo si ripercuote enormemente su tutta l’attività del Parlamento. Vi sono poi due ostacoli gravi. Uno è il ricorso continuo del governo ai decreti legge: anche il governo è premuto da problemi di grande serietà, e urgenza, lo capisco, ma la necessità di occuparsi continuamente dei decreti governativi non consente alla Camera di svolgere la sua attività normale. Secondo ostacolo è l’ostruzionismo che un gruppo minoritario, quello radicale, conduce come metodo. Il risultato è che la Camera lavora un numero spaventoso di ore, molto più di quanto non lavorasse nello stesso periodo della precedente legislatura: e senza ottenere molto. (…) Il regolamento offre ben scarsi strumenti per rendere possibile ciò che deve assolutamente essere tutelato perché rappresenta la vita normale del Parlamento, ossia che la maggioranza riesca a decidere.
D – I radicali fanno ostruzionismo perché considerano sbagliati certi provvedimenti: perché non si lascia giudicare la gente, trasmettendo le sedute della Camera in diretta alla televisione, se è bene approvare ad esempio una legge come quella sull’editoria?
R – Vorrei che i Radicali cominciassero a pensare che non sono i depositari della verità, che bisogna confrontarsi con gli altri… Credere che trasmettere integralmente le sedute della Camera alla tv serva a informare tutti sui lavori parlamentari, presuppone che i cittadini non abbiano niente da fare, che possano passare le giornate davanti alla televisione: questo non è proprio pensabile, la gente lavora e lavora molto. Cosa potrebbe seguire poi? Decine di discorsi di Radicali che sono tutti uno uguale all’altro, nel senso che ripetono tutti gli stessi argomenti. Sarebbe, oltre che molto costoso, poco interessante”.
Eventi che Iotti connette “nel senso cioè che le elezioni del Parlamento europeo… costituiscono un passo qualitativo verso la costruzione di una Europa unita, capace di contare nel mondo per una politica di disarmo, di pacifica coesistenza e di pace”.
Nilde Iotti. Discorsi parlamentari (1946-1983), Camera dei Deputati, Roma 2003, vol. 01, p. 278.
“Questa nostra Assemblea ha dovuto ricorrere a misure di sicurezza, senza alcun dubbio necessarie. Ma guai a noi, onorevoli colleghi, se non avvertissimo con tutta la nostra forza e con tutto il nostro senso di responsabilità che le assemblee parlamentari esprimono al più alto grado la sovranità popolare. Non possono perciò, per la loro stessa natura, divenire un fortilizio, ma devono continuare a essere, anzi essere sempre di più, assemblee aperte al nostro popolo, alla grande forza di democrazia e di unità che lo anima”.
Nilde Iotti. Discorsi parlamentari (1946-1983), Camera dei Deputati, Roma 2003, vol. 01, p. 278.
Votarono contro il MSI e i Radicali.
“Io stessa – non ve lo nascondo – vivo quasi in modo emblematico questo momento, avvertendo in esso un significato profondo, che supera la mia persona e investe milioni di donne che attraverso lotte faticose, pazienti e tenaci si sono aperte la strada verso la loro emancipazione. Essere stata una di loro e aver speso tanta parte del mio impegno di lavoro per il loro riscatto, per l’affermazione di una loro pari responsabilità sociale e umana, costituisce e costituirà sempre un motivo di orgoglio della mia vita”.
Nilde Iotti. Discorsi parlamentari (1946-1983), Camera dei Deputati, Roma 2003, vol. 01, p. 278.
“E’ noto che l’allora segretario comunista Enrico Berlinguer ed altri membri della direzione fossero assai preoccupati del suo esito, soprattutto nel mezzogiorno dove invece il no all’abolizione dell’aborto si affermò largamente anche e proprio per la scelta delle donne che avevano tragico ricordo delle pratiche clandestine e delle mammane. Ma a differenza di altri compagni, Enrico riconobbe immediatamente i meriti, le ragioni, il fiuto di Nilde: non credo sia altrettanto noto che, incontrandola l’indomani del risultato del referendum al piccolo ascensore del Bottegone, quello riservato ai dirigenti del partito, le sorrise, si congratulò, le strinse la mano con un calore insolito per lui, apparentemente sempre così sorvegliato. Un inedito Berlinguer, ricorderà sempre Nilde con nostalgia di quel momento”.
G. Frasca Polara, Nilde. Un ritratto appassionato di un grande giornalista che l’ha conosciuta da vicino, pp. 2-3.
“Il ragionamento sulla Costituzione rappresenta il punto di riferimento fondamentale del pensiero della Iotti al fianco delle donne per la conquista dei diritti. Dal punto di vista della coerenza e dell’assoluta chiarezza di obiettivi, il suo percorso può essere letto quasi come un’unica battaglia per la conquista di un solo diritto composto di tante parti: il diritto di piena cittadinanza delle donne – in quanto donne – nel nostro Paese. (…) Ad arricchire il suo ragionamento si aggiunge il concetto di responsabilità, molto vicino al significato di autonomia piena del femminile rispetto al maschile. Il quadro si completa con quell’altissimo senso dello Stato, che nella visione della Iotti non è né un elemento distaccato dai cittadini né una somma di partiti, ma l’autorità suprema che garantisce la piena cittadinanza di tutte le persone. (…) Le critiche – a volte anche aspre – di cui fu oggetto non solo all’interno del suo partito, ma soprattutto da parte dei movimenti femministi degli anni settanta, hanno per alcuni versi ragion d’essere, in particolare per quanto riguarda l’incomprensione da parte della Iotti rispetto ad alcune forme e modalità con cui il pensiero dei nuovi gruppi veniva elaborando il suo agire. Meno giustificata – se si analizzano più da vicino certi concetti da lei espressi – appare invece la critica diretta ai contenuti: discorsi sobri e misurati i suoi, certo, ma che tuttavia rivelano importanti brecce, varchi capaci di aprire ad uno spazio interpretativo più profondo, ad analisi che gettano lo sguardo sorprendentemente in avanti. Aspetti che forse non sempre vengono sufficientemente sottolineati”.
Lorenza Perini, Il corpo della cittadina. Nilde Iotti e il dibattito sull’aborto in Italia negli anni 70, in Nilde Iotti. Presidente. Dalla Cattolica a Montecitorio, a cura di Imprenti, F., e Magnanini, C., Biblion, Milano 2010, pp. 157-8.
“D – Non pensa che il problema dell’aborto, come quello del divorzio, erano (e sono ancora) problemi che riguardano maggiormente le donne non cattoliche, cioè quelle che pensavano e pensano di poter usufruire o essere libere di usufruire di questi nuovi diritti?
R – Ero e sono convinta che si tratta di problemi che possono essere affrontati e risolti solo con la forza e il coinvolgimento della maggioranza delle donne e degli uomini. Quindi anche dei cattolici. Soprattutto perché, poi, certi problemi li vivono tutti in prima persona, e anche con grandi drammi. Dico una cosa che forse non dovrei: quante donne cattoliche hanno abortito in tutti questi anni? E perché allora non avremmo dovuto tener conto anche di loro?”.
Catherine Spaak, Preferisco pentirmi che rimpiangere, Intervista con Nilde Iotti, Supplemento a “Corriere della Sera”, 03.05.1980.
“So che sono stata considerata una sorpassata sulla questione femminile, ma questo penso sia per il fatto che non ho partecipato in prima persona alla legge per l’aborto. Io ho sempre sostenuto che bisognava condurre questa battaglia con tutte le attenzioni necessarie per non urtare il mondo cattolico. E questo mio atteggiamento ha infastidito la parte più oltranzista del movimento femminista. L’emarginazione, in questo caso, è stata fatta piuttosto nei miei confronti”.
Cristiana di San Marzano, Intervista con Nilde Iotti, “Annabella”, 12 luglio 1979.
“Anzitutto introdusse la pratica degli scambi di esperienze parlamentari (e non solo nell’ambito dell’allora ‘piccola Europa’). Poi diede nuovo impulso ai contatti istituzionali, non solo nel nostro continente. Andò in Cina, per verificare le novità introdotte da Deng. Non una visita-lampo: venti giorni per girare in lungo e in largo città, campagne, nuovi territori industriali; e per incontrare quelli che allora erano i nuovi dirigenti del PCC, a cominciare dal leader di fatto Deng Xiaoping (teorico del cosiddetto socialismo di mercato), dal premier Zhao Zijang, e dal segretario del partito Hu Yaobang. E, a proposito di nuovi dirigenti, corse – letteralmente corse – in quella che ancora era l’Unione Sovietica per capire bene, incontrando due volte Michail Sergeevic Gorbaciov, che cosa rappresentasse (‘nella società più che nel solo partito’) la perestrojka, dove andasse a parare, quali potessero esserne le conseguenze”.
G. Frasca Polara, Nilde. Un ritratto appassionato di un grande giornalista che l’ha conosciuta da vicino, p. 10.
“In lei si deve senza dubbio riconoscere una delle personalità che hanno maggiormente contribuito all’evoluzione in senso europeistico del PCI, all’unità del più vasto arco di forze politiche sul terreno dell’europeismo, così da dare maggior forza al ruolo dell’Italia nella costruzione europea”.
Giorgio Napolitano, Prefazione, in Nilde Iotti. Presidente. Dalla Cattolica a Montecitorio, a cura di Imprenti, F., e Magnanini, C., Biblion, Milano 2010, p. XV.
Si veda, anche per la complessità dei temi affrontati, il discorso dell’11 febbraio 1977 con cui Iotti annuncia il voto favorevole del PCI all’introduzione del suffragio universale per l’elezione del Parlamento europeo:
“Onorevoli colleghi, da tutte le parti… si afferma che noi comunisti siamo cambiati, che abbiamo cambiato la nostra posizione politica. Mi guardo bene dallo smentire questa che mi sembra una verità. Ma vorrei aggiungere un’altra considerazione, e cioè che, attraverso travagliate e complicate vicende, lungo un processo articolato di lotte per la distensione, è il mondo che è cambiato, sono cambiati i termini della politica internazionale: una forza politica che voglia restare giovane (mi si consenta l’espressione), che voglia cioè rispondere alle esigenze del proprio tempo, non può non cambiare. (…) Ebbene, credo che noi sbaglieremmo se, nel momento in cui affrontiamo il problema delle elezioni a suffragio universale diretto del Parlamento europeo, non ponessimo in termini prioritari la questione della autonomia europea. Noi dobbiamo muoverci a concepire una politica europea in virtù di questo obiettivo fondamentale: conquistare all’Europa la sua autonomia, la padronanza del proprio destino. (…) Nessuno pone il problema – ed è quasi inutile che io lo ripeta in quest’aula – di una rottura nei confronti degli Stati Uniti, e neppure dei patti militari… che ci legano agli Stati Uniti d’America. Noi vogliamo una politica di scambi, di amicizia, di collaborazione… in un confronto che potrà essere fecondo solo se l’Europa manterrà la propria indipendenza sostanziale. (…) Io sono profondamente convinta che l’autonomia dell’Europa derivi da una sua collocazione verso questi tre poli: gli Stati Uniti, i paesi socialisti (e quindi anche l’Unione Sovietica) e i paesi in via di sviluppo. L’autonomia e l’indipendenza si garantiscono oggi in molti modi, non solo con le armi, ma anche e soprattutto con la politica, in modo che l’Europa diventi momento di superamento della divisione del mondo in blocchi (divisione che appare ormai come un elemento vecchio, da superare, anche se ancora pericoloso), e quindi elemento dinamico del processo di distensione sulla grande scena internazionale”.
Nilde Iotti. Discorsi parlamentari (1946-1983), Camera dei Deputati, Roma 2003, vol. 01, pp. 261-267.
Nilde Iotti, La Resistenza, il diritto di voto, il referendum, “Rinascita”, n. 30, 26 luglio 1974, p. 23.
Si veda anche il discorso di Iotti in occasione della votazione finale del provvedimento:
“Intendo dire che la riforma del diritto di famiglia finalmente traduce in legge positiva quello che era un dettato della Costituzione repubblicana. Infatti, non va dimenticato che l’inizio della riforma del diritto di famiglia risale agli anni 1946-1948, quando cioè si approvarono le disposizioni costituzionali a cui ci si è ora rifatti per la riforma stessa. Senza voler entrare in una analisi approfondita delle ragioni che hanno permesso di far trascorrere tanto tempo prima che si attuassero i principi costituzionali, io credo che non si debba dimenticare che c’è stato un lungo periodo in cui reclamare in questa materia l’attuazione della Costituzione significava essere contro la legge, poiché si era convinti che la legge ancora in vigore (il codice civile attuale) avesse un peso maggiore della stessa Costituzione, cioè che la Costituzione dovesse essere interpretata nella chiave della legge vigente. Per fortuna questo periodo è finito e oggi la nostra discussione ci ha riportato (come ha detto giustamente il ministro Reale) alle stesse fonti del nostro Stato: la Costituzione e lo spirito che ha animato la guerra di liberazione”.
Nilde Iotti. Discorsi parlamentari (1946-1983), Camera dei Deputati, Roma 2003, vol. 01, p. 235.
“Ancora di Nilde fu più tardi, nel 1975 e con la preziosa collaborazione di Ugo Spagnoli (a lungo deputato e poi giudice della Corte Costituzionale), la prima, organica riscrittura di quello che divenne il ‘nuovo’ diritto di famiglia, rispetto a quello definito dal fascismo nel lontano 1942 e che ormai faceva a pugni con i principi della Costituzione. Basterà ricordarne i cardini per sommi capi: il riconoscimento – alla buon’ora – della parità giuridica dei coniugi, l’abrogazione dell’istituto della dote, il riconoscimento ai figli naturali della stessa tutela prevista per i figli legittimi, l’istituzione della comunione dei beni come regime patrimoniale legale della famiglia in mancanza di diversa convenzione, la sostituzione della patria potestà con la potestà di entrambi i genitori”.
G. Frasca Polara, Nilde. Un ritratto appassionato di un grande giornalista che l’ha conosciuta da vicino, p. 2.
“Sancisce il tramonto della cultura cattolica ufficiale che ha dominato l’Italia per oltre quarant’anni: non delle ‘culture’ cattoliche, che nella circostanza si sono coraggiosamente divise, né tanto meno dell’adesione a una fede e a una speranza cristiana di salvezza, bensì dell’ambizione di identificare una dottrina morale con la morale ‘naturale’ e della pretesa di annettere un’intera società a un’unica visione del mondo e a un solo modo di impostare la vita privata, i rapporti sessuali, i legami di paternità e maternità”.
Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1992, p. 359, cit. in Nilde Iotti. Presidente. Dalla Cattolica a Montecitorio, a cura di Imprenti, F., e Magnanini, C., Biblion, Milano 2010, p. 92 n. 88.
“Dobbiamo essere ben consapevoli, naturalmente, di che cosa significa un referendum (…). Ecco, in primo luogo vi è una constatazione: il referendum quali forze allinea su un certo fronte? Il referendum allinea la DC e il MSI, fascisti e democratici cristiani. Badate che io uso la parola “allinea sullo stesso fronte”, non dico “li allea”, li allea per l’obiettivo specifico. Perché fino ad oggi – domani potrebbe essere diverso – non è un’alleanza. Anzi, la DC, lo stesso documento episcopale teme questa collusione, ma è un fatto che questa battaglia viene condotta dai fascisti e dalla DC. E indubbiamente i contenuti che il MSI darà a questa battaglia saranno determinanti anche per una parte della DC; aggiungo, ed è un argomento ancora più importante, che il discorso va al di là delle forze politiche. Coloro che voteranno per l’abrogazione della legge sul divorzio, la voteranno per argomenti che saranno, tra l’elettorato del MSI e l’elettorato della DC, in gran parte comuni. (…) Quindi c’è un’aggregazione dell’opinione pubblica attorno a delle posizioni estremamente conservatrici. (…) Ed ecco allora il significato del referendum per certe forze politiche: aprire una strada involutiva in una situazione, dal punto di vista politico ed economico, drammatica per il nostro paese. (…)
Ma viene anche un’altra considerazione, a mio avviso non inferiore alla prima: questa lotta fra le forze conservatrici passa all’interno della DC. L’aver voluto il referendum è stata una vittoria delle forze più conservatrici della DC; e questa è una battaglia che ripropone all’interno della DC tutto il problema della loro scelta politica. Io penso che non a caso l’ha fatta Fanfani, questa scelta; che è l’uomo il quale ha iniziato la campagna elettorale del 1972 dicendo che si poteva scegliere indifferentemente a destra o a sinistra, negando l’irreversibilità della formula del centrosinistra. Voi vi rendete conto di cosa questo significhi: noi siamo riusciti a ottenere, dopo una lotta durissima contro il governo Andreotti, da poco tempo, un’inversione di tendenza, con tutte le debolezze e la drammaticità della situazione anche dal punto di vista politico, però noi sappiamo molto bene che se si vuole andare avanti, anche verso un governo che risolva la situazione di crisi italiana in senso progressivo e non in senso reazionario… sappiamo molto bene che questo deve passare anche all’interno di un orientamento della DC. E tutta la battaglia per il referendum significa invece l’attacco della destra democristiana alla possibilità di questa linea, e quindi il fatto che tendono a prevalere forze che parevano messe a tacere. Allora direi che questa battaglia è importante perché avviene, è importante per il modo in cui si svolgerà, ed è estremamente importante per il suo risultato.
Cari compagni, questa battaglia la dobbiamo vincere, perché le conseguenze di questa battaglia potrebbero essere molto gravi, per l’orientamento all’interno della DC e per un’aggregazione nell’opinione politica (…) tra una gran parte dell’elettorato cattolico e l’elettorato fascista. E questa è una cosa a cui noi dobbiamo fare estrema attenzione. (…)
Aggiungo qui una sola parola: (…) non voglio parlare del processo economico in sé, ma certe soluzioni riguardano anche il processo economico. Cioè una nuova linea di sviluppo va avanti se va avanti un certo tipo di alleanza; (…) altrimenti la risposta alla crisi economica sarà tutta sulle spalle dei lavoratori.
(…) Infine, ed è l’ultima cosa che volevo dire, visto che questa battaglia è così importante, che ha implicazioni così complesse anche per quanto riguarda la nostra linea, come conduciamo avanti questa battaglia? Io qui compagni non è che so dare ancora molte risposte, credo che forse molte risposte le diamo sui contenuti; sul modo di condurre avanti questa battaglia ancora non mi pare che abbiamo detto molto di nuovo. Io mi pongo un interrogativo, e lo pongo anche a voi: noi dobbiamo renderci conto che questa battaglia sarà condotta e diretta non solo dalle forze politiche, ma da altri centri. Già il comitato per il referendum è un centro diverso da quelli tradizionali; (…) ma verrà fuori indubbiamente tutta una serie di organizzazioni cattoliche, legate alle parrocchie, molto diverse da quelle che noi siamo abituati ad avere di fronte nel corso di una battaglia politica.
Questo è un fatto che ci pone dei problemi sul modo di fare questa battaglia.
Certo faremo dei comizi in piazza, faremo assemblee, riunioni, dibattiti… Però io credo, e mi spiace che per conto mio so indicare soltanto una strada, che noi dobbiamo sviluppare al massimo il lavoro capillare, al massimo: assemblee di caseggiato, riunioni di case, di quartieri. E dobbiamo avere il coraggio di andare, quando lo sappiamo – certo, scegliendo bene i compagni – là dove … ci sono riunioni, assemblee – anche in parrocchia, io dico – in cui si discute del referendum, noi dobbiamo andare a portare le nostre ragioni. Dobbiamo pensare che siamo su un fronte di battaglia che impegna il partito, le organizzazioni… ma che impegna ognuno dei compagni in quanto tale. Io penso che ognuno dovrebbe diventare a sua volta un centro di organizzazione, di propaganda, di influenza della gente normale con cui viviamo, che sono i nostri vicini di casa, gente che vediamo sui luoghi di lavoro, che incontriamo al mercato e così via. (…)
E non so se noi siamo già su questa strada, perché è un lavoro difficile da mettere in piedi. Quello che sento è che noi dobbiamo avere un impegno di questo genere.
Chiudiamo: che prospettive abbiamo, compagni? Se dobbiamo fare il conto dei voti avuti nelle elezioni dai partiti divorzisti, avremmo… tra un milione e mezzo e due milioni di vantaggio. Però, rendiamoci ben conto: questa è una battaglia che passa all’interno degli elettorati, tocca anche il nostro; io ritengo non in modo prevalente, per questo credo che anche per mantenere il nostro elettorato – non è questa, l’ho già detto, la ragione fondamentale, ma anche per questa ragione – tutto il discorso del valore politico di questa battaglia dobbiamo condurlo, e con molta forza. Però rendiamoci conto che ci saranno frange di elettorato nostro che voteranno a favore dell’abrogazione della legge sul divorzio. E per queste frange noi dobbiamo conquistare nell’elettorato della DC, dobbiamo riuscire a fare un’azione di carattere generale che mantenga il più possibile solido anche l’elettorato degli altri partiti, in modo da mantenere questa maggioranza che abbiamo in partenza, perché le conseguenze che potrebbero esserci se così non fosse le ho già dette e ve ne rendete conto tutti”.
Intervento di Nilde Iotti, Seminario referendum sul divorzio, Lazio 22-24 febbraio 1974, Archivio associazione Enrico Berlinguer.
In pubblico appare solo la ferma convinzione dell’impatto negativo del referendum sulla strategia di fondo del PCI, si veda come esempio l’articolo di Paolo Bufalini, Divorzio – Contro il referendum, per la laicità dello Stato, L’Unità 07.10.1971. Sui tentativi di impostare una trattativa a dir poco complessa.
L. Barca, Cronache dall’interno del vertice del PCI, vol. II, pp. 497-8, 501-3, 508, 510-13, 548-9, 569.
“Era un paese che usciva dalla guerra, dilaniato fino in fondo; era un paese che era passato, per liberarsi dal fascismo e dall’oppressione tedesca, per una guerra di liberazione giusta, sì, ma lacerante fino nel profondo. Era un paese che aveva vissuto il referendum monarchia-repubblica, anch’esso lacerante fino nel profondo. E volevate che noi comunisti, che credevamo di potere, nell’unità delle forze popolari – e ancora lo crediamo! – costruire una via nuova per il rinnovamento del nostro paese, aggiungessimo a tutte le altre divisioni anche questa, che avrebbe aperto un solco tra noi e le masse cattoliche che avevano lottato con noi per la libertà e il progresso del nostro paese, uscito dalle rovine del fascismo? Per questi motivi abbiamo votato l’articolo 7 della Costituzione.
E se voi, onorevoli colleghi della democrazia cristiana, ricorrerete al referendum, ebbene, farete il contrario di quello che noi abbiamo fatto allora. Cercherete la divisione tra i lavoratori italiani, la divisione tra il popolo italiano. Non credo che questo tornerà a onor vostro; certamente non tornerà a vantaggio della democrazia italiana e di tutto il nostro paese.
Nilde Iotti. Discorsi parlamentari (1946-1983), Camera dei Deputati, Roma 2003, vol. 01, p.203-4.
“L’onorevole Andreotti ha detto: noi voteremo anche per loro. Ebbene, non credo che possiamo muoverci con questa – mi perdoni l’espressione, onorevole Andreotti – faciloneria, con questa superficialità, su questo terreno. Il problema del divorzio affonda le sue radici profondamente nella vita del nostro paese. E se sono stata molto sincera nell’affermare (non ho nessuna difficoltà a farlo) che certamente non tutti coloro che votano per il mio partito sono d’accordo per il divorzio, sono però altrettanto convinta che non tutti coloro che votano per la democrazia cristiana condividono il vostro ‘no’ al divorzio.
Questa linea, onorevole Andreotti, passa anche all’interno del vostro elettorato. E voi ne siete consapevoli, poiché – lasciatemelo dire – nella difesa delle vostre posizioni, anche appassionata, anche ad alto livello (…), c’era anche qualcosa di disperato, come di chi sa che difende una posizione di retroguardia che ormai neppure all’interno delle proprie forze è pienamente condivisa”.
Nilde Iotti. Discorsi parlamentari (1946-1983), Camera dei Deputati, Roma 2003, vol. 01, p.195-6.
“Certo, noi sappiamo molto bene che quando una famiglia si dissolve la condizione dei figli diviene estremamente grave; noi non possiamo disinteressarcene, come se questo fatto non esistesse.
Ma credo che vi sia un fatto che precede questo e che non possiamo dimenticare, e cioè che i figli sono sì importanti nella vita di un nucleo familiare, ma i protagonisti della famiglia non sono i figli: sono il padre e la madre. Sono questi ultimi a determinare la vita familiare ed il livello morale di essa; non la presenza dei figli. Se gli onorevoli colleghi che hanno svolto queste argomentazioni, con riferimento ai figli, fossero coerenti con sé stessi, dovrebbero esserlo tanto da presentare in quest’aula una proposta per l’abolizione della separazione legale. Infatti, la condizione dei figli dei divorziati e dei futuri divorziati non è diversa da quella dei figli dei coniugi separati. Mi si potrà dire che i figli dei coniugi separati possono sempre sperare che la famiglia si ricomponga. Ma quante volte questo si verifica in una realtà come la nostra? Tutti infatti conosciamo le cifre relative alle separazioni legali e alla durata delle stesse! Credo sia vero esattamente il contrario, e cioè che proprio i figli delle coppie separate vivano in una condizione di incertezza maggiore rispetto ai figli di divorziati, proprio perché è sempre possibile da parte di uno dei coniugi pensare – al fine di ritornare all’unità, spesso impossibile, della famiglia – di usare i figli per dar luogo a una serie di ricatti verso l’altro coniuge, che distruggono la personalità e di cui essi pagheranno duramente ed aspramente il prezzo nella loro vita. (…)
Per ciò che si riferisce ai figli, mi richiamo ancora una volta a un mondo che è più vicino a voi di quanto sia vicino a noi. La Chiesa stessa non ha mai fatto questione, nelle sue sentenze di nullità del matrimonio, della presenza dei figli. (…)
Aggiungo, infine, onorevoli colleghi, che la condizione dei figli in una famiglia tenuta insieme per forza, in una famiglia dove la violenza o peggio – dico peggio – l’indifferenza sono alla base dei rapporti dei coniugi, è la peggiore possibile, e causa la devastazione della loro personalità; peggio, assai peggio, questa condizione che non quella di un figlio o di più figli che vivono con uno solo dei genitori separati, perché almeno in questo caso è possibile mantenere un minimo di rispetto per i genitori mentre nell’ambito di una famiglia basata o sulla violenza o, peggio ancora, sull’indifferenza dei coniugi, non può più aversi neppure il rispetto dei figli nei confronti dei genitori”.
Nilde Iotti. Discorsi parlamentari (1946-1983), Camera dei Deputati, Roma 2003, vol. 01, p.186-8.
“Ebbene, credo che dobbiamo giungere ad una prima considerazione che non ritengo si possa contestare: nel passato la famiglia ha costituito essenzialmente un momento di aggregazione della società umana, basato su motivi molto diversi, l’accasamento particolarmente per le donne, la procreazione dei figli, la trasmissione del patrimonio. (…)
La famiglia, cioè, ha risposto, in qualche modo, alla ricerca di collocazione sociale degli individui. La legge italiana, del resto, quella che ancora oggi regola le norme del diritto familiare, coglie soprattutto l’ultimo di questi aspetti che ho ricordato, quello della trasmissione del patrimonio e fissa una serie di vincoli e di norme, che oggi sono assai lontani – dobbiamo rendercene conto, e già troppo tempo è passato prima che ce ne rendessimo conto – dall’animo e dalla coscienza dell’uomo moderno, anzi, dico di più, sono respinti dalla coscienza degli uomini moderni, almeno dalla maggior parte di essi. (…)
A noi pare che ciò che nel mondo moderno spinge le persone al matrimonio ed alla formazione della famiglia, ciò che rende morale nella coscienza popolare la formazione della famiglia, sia in primo luogo l’esistenza di sentimenti. Questo e non altro è il motivo che spinge oggi un uomo ed una donna a contrarre matrimonio ed a costituire una famiglia. E’ stato detto anche, da un onorevole collega di parte democristiana, che parlare di una famiglia e di un matrimonio fondati soltanto sui sentimenti significa dare una base troppo fragile al matrimonio. Certo, quando parliamo di sentimenti, noi non parliamo di qualcosa di fragile o di sentimenti basati soltanto sull’attrazione fisica, che è cosa ben diversa dal sentimento che spinge al matrimonio, anche se l’attrazione fisica è parte di esso, e qualche volta ne costituisce il punto iniziale. Noi parliamo di sentimenti che investono profondamente la personalità dell’individuo, che giungono ad essere parte della sua razionalità, per cui il dono totale di sé stessi che è alla base del matrimonio diviene ad un tempo affermazione e conquista di sé stessi. Questa, io credo, è oggi la base morale del matrimonio. (…)
Anzi, dico di più: oggi si considera morale quel matrimonio che si contrae solo sulla base di questi sentimenti e non di altri motivi. (…)
E sono convinta che soprattutto nei giovani, in questi giovani così ribelli, così ansiosamente alla ricerca di qualche cosa per cui valga la pena di vivere, questo discorso è oggi profondamente sentito, più profondamente di quanto noi non immaginiamo, distolti forse da qualche manifestazione del mondo giovanile che può farci pensare che essi nutrano un certo qual scetticismo sull’esistenza di sentimenti profondi.
Del resto, a riprova di tutto questo e della verità di quanto diciamo, vi è l’atteggiamento assunto dalla Chiesa in occasioni molto solenni. (…) Uno degli elementi che ci hanno estremamente interessati, emersi nel corso della discussione appassionata e profonda che ha investito la Chiesa in quella occasione così solenne [il Concilio Vaticano II], è consistito proprio nel fatto che, a proposito del matrimonio, forse per la prima volta nella storia della Chiesa, accanto al fine della procreazione dei figli, è stata posta la questione dei sentimenti, come base morale del matrimonio cristiano. (…)
Proprio perché noi siamo convinti di questo, onorevoli colleghi, traiamo dalla nuova concezione della famiglia e dalla nuova realtà morale della vita familiare la necessità che la legislazione italiana consenta la possibilità di scioglimento del matrimonio. La nostra posizione è estremamente chiara e precisa: noi non ci nascondiamo dietro una casistica. Noi sosteniamo il divorzio perché riteniamo che questo istituto trovi rispondenza nella mutata coscienza morale dei cittadini italiani e nella mutata natura della famiglia. Vedete, onorevoli colleghi: per quanto siano forti i sentimenti che uniscono un uomo e una donna – in ogni tempo, ma soprattutto, direi, nel mondo di oggi – essi possono anche mutare; e quando non esistono più i sentimenti, non esiste neppure più, per le ragioni prima illustrate, il fondamento morale su cui si basa la vita familiare. Abbiamo dunque bisogno di ammettere la possibilità della separazione e dello scioglimento del matrimonio”.
Nilde Iotti. Discorsi parlamentari (1946-1983), Camera dei Deputati, Roma 2003, vol. 01, p.183-6.
“L’onorevole Moro ebbe a dire in quell’occasione: ‘Quando si dice società naturale si vuol riconoscere che la famiglia nelle sue fasi iniziali è una società naturale. Per quanto sia caro a noi democristiani il vincolo sacramentale, questo non impedisce di raffigurare una famiglia, comunque costituita, come una società che, presentando determinati caratteri di stabilità e di funzionalità, possa inserirsi nella vita sociale’. Ora, Onorevoli colleghi, non si può far dire alla Costituzione ciò che essa non dice e che non si volle che dicesse venti anni fa. La Carta costituzionale è un documento storico, che rappresenta ‘quell’incontro fra forze con una comune esperienza politica e non con una comune esperienza ideologica’. E per questo, onorevoli colleghi, la Costituzione è alla base del nostro vivere civile”.
Nilde Iotti. Discorsi parlamentari (1946-1983), Camera dei Deputati, Roma 2003, vol. 01, p.183.
“Il rileggere, quasi riascoltandolo, quel magnifico discorso, mi ha spinto a riflettere – per rendervi omaggio – su quel che fu l’oratoria parlamentare. Una tradizione quasi dissoltasi, se penso al respiro ideale e culturale, e anche alla cura letteraria e all’eleganza di dizione, che caratterizzano gli interventi – nei maggiori dibattiti – non solo dei leaders (come da qualche tempo si è preso a chiamarli) ma anche di altri oratori in rappresentanza dei rispettivi gruppi parlamentari: perché era una scuola, in cui, una volta eletti in Parlamento, ci si cimentava”.
Giorgio Napolitano, Prefazione, in Nilde Iotti. Presidente. Dalla Cattolica a Montecitorio, a cura di Imprenti, F., e Magnanini, C., Biblion, Milano 2010, p. XIV.
“Bisogna dare atto all’on. Fortuna di essere riuscito a mettere in moto l’opinione pubblica e a spingere il suo stesso partito su un terreno di confronto con la DC, fra i più delicati dal punto di vista ideale e politico. Diciamo l’on. Fortuna e non il PSI, perché abbiamo l’impressione che quest’ultimo, a parte la posizione assunta dal movimento femminile, abbia più subito che sostenuto l’azione del proprio deputato e che consideri con preoccupazione il modo di giungere a chiudere la discussione sul divorzio, come una rovente castagna che bisogna in qualche modo togliere dal fuoco. (…)
Del resto l’on. Tanassi… è arrivato a dire che la introduzione del divorzio non è un problema politico attuale, aggiungendo che – certo – i tempi sono cambiati e che al divorzio, presto o tardi, si dovrà giungere, ma occorre far mutare le coscienze e il senso di responsabilità degli italiani perché ancora non darebbero sufficienti garanzie. L’on. Tanassi mi permetterà di respingere con forza questa patente di minorità che egli attribuisce al popolo italiano. (…)
La verità è che siamo di fronte a una questione tra le più vive e discusse, proprio perché pone l’Italia in una posizione assurda rispetto agli altri paesi civili. La verità è che, in questo Parlamento, a rigor di calcoli, si può formare una maggioranza parlamentare, certamente diversa dalla maggioranza governativa, ma proprio perciò più valida perché più rispondente al maturarsi di nuovi orientamenti ideali e di interessi pratici nel paese. (…)
Sembra che il partito cattolico tenti di perpetuare sul piano politico l’ ’era costantiniana’ malgrado il Concilio abbia decretato – e con quale serietà e solennità! – la fine di essa. Sembra inoltre che quella grande conquista umana che fu la libertà di coscienza – pur accolta nei documenti conciliari – sia ignota ai dirigenti della DC. Sicché questo partito, che pretende ed ha – almeno formalmente – la leadership dei partiti cattolici di tutto il mondo, appare come il più vecchio e il più superato, incapace di accogliere come propri alcuni dei momenti essenziali del pensiero moderno. Si badi bene: nessuno di noi pretende che i cattolici abbandonino le loro concezioni morali per assumerne altre che sono estranee alla loro dottrina. Essi però non possono dimenticare che sono anche uomini di governo e come reggitori primi dello Stato hanno il dovere di comprendere le esigenze del mondo moderno, anche se contrarie ai loro principi religiosi, e debbono trovare una via che consenta il rispetto della libertà di coscienza di tutti i cittadini negli strumenti giuridici. (…)
Forse per questo ci ha colpito la proposta che sarebbe stata avanzata dai ministri democristiani a proposito del divorzio: rinviare tutto a dopo le elezioni politiche del 1968 e indire sull’argomento un referendum popolare. (…) Siamo comunque convinti che una volta di più si tratta di un rinvio alle calende greche: basti pensare che non esiste ancora – a venti anni dalla Costituente – una legge per il referendum popolare. Nè ci preoccupa tanto il risultato eventuale di esso, convinti come siamo che molte sorprese sarebbero possibili anche in questo campo, anche per la DC.
Ciò che non ci pare giusto è sottoporre a referendum un simile provvedimento. Qui siamo nel campo dei diritti della persona umana, della libertà di coscienza di tutti i cittadini e non è pensabile che essi dipendano da un voto di maggioranza o meno. (…) Lo sviluppo stesso della vita civile e democratica si basa sull’esercizio incontestato di essi e una loro messa in discussione, sia pure a livello dell’intero corpo elettorale, lungi dall’essere una prova di democrazia costituirebbe un arretramento di essa.
Vi è infine un secondo aspetto più grave ancora – se possibile – del primo. E’ agevolmente immaginabile che cosa diverrebbe un referendum popolare sul divorzio, quali argomenti verrebbero portati in campo, quali forze sarebbero mobilitate. E’ difficile pensare che la Chiesa in prima persona, nei suoi uomini e nelle sue organizzazioni, non sarebbe trascinata in uno scontro e in un confronto che, a parte il risultato, finirebbe sempre per risolversi in una frattura profonda nel corpo vivo del paese, piena di conseguenze per la sua pace religiosa. Rifletta la DC prima di dar vita ad una contesa che rischierebbe di riaprire nel paese ferite ormai chiuse da cento anni”.
Nilde Iotti, La difficile strada del divorzio in Italia, “Rinascita”, 8 ottobre 1966, n. 40.
“D – La politica di Togliatti, specialmente negli ultimi tempi, è stata interpretata in modo diverso o addirittura opposto: stalinista o teorico e difensore della democrazia parlamentare. Qual è la sua opinione?
R – Mi attengo ai fatti: a tutta la univoca elaborazione teorica nella lotta clandestina contro il fascismo; ai rapporti di Togliatti, del ‘36 dalla Spagna, in cui lamenta la ingombrante presenza dei ‘consiglieri’ sovietici. Mi attengo a tutta la strategia del PCI dal ‘43 in poi: le vie nazionali, la svolta di Salerno, la Costituente. Mi attengo a quel fondamentale messaggio che è il ‘Memoriale di Yalta’. No, Togliatti credeva nella democrazia e fondava tutta la sua azione politica sulla democrazia. Senza aggettivi, possibilmente”.
Intervista con Nilde Iotti – “Prospettive nel mondo”, 2 luglio 1988
“D – Cosa direbbe se oggi dovesse fare un bilancio della sua vita?
R – Attivo e passivo sono parole che non si ha il diritto di usare, parlando della propria vita. Io avevo certe idee politiche nel 1944 e posso dire di esservi rimasta fedele. E’ un fatto di coerenza. Non posso neppure dimenticare di avere avuto una grande fortuna, quella di incontrare Togliatti. Fortuna dal punto di vista politico, perché è stato un maestro, ma soprattutto fortuna dal punto di vista umano.
D – Fu un bel rapporto, vero?
R – Così ricco e pieno, completo e appagante, che ha lasciato un segno indelebile. Quando lui morì, avvertii la solitudine come un peso enorme.
D – Non ha mai pensato ad una nuova unione?
R – E’ proprio quello che non ho mai pensato”.
Dino Cimagalli, Intervista con Nilde Iotti, “Gente”, 11 ottobre 1985.
“Il dono più gradito che Nilde poteva e voleva fare a quanti le fossero più cari – compagni soprattutto, ma non solo – era costituito quasi sempre da una fotocopia della cosa più cara che gelosamente conservava del suo compagno (insieme con un cornetto contro il malocchio e all’orologio da polso): il manoscritto originale del memoriale che Togliatti aveva steso a Jalta nell’agosto del 1964 alla vigilia di quell’incontro con Nikita Krusciov che non avvenne mai, prima per i rinvii del leader sovietico (diplomatici o non, certo è che avevano irritato molto il segretario del Pci), poi per l’ictus che portò alla morte Togliatti.
Il Memoriale consta di ventinove pagine redatte con scrittura minuta ma chiarissima, inchiostro verde, correzioni quasi mai formali. Con la forma, già piuttosto inusuale (quasi che Togliatti volesse lasciare una traccia scritta delle sue pesanti osservazioni), quel che balza subito agli occhi è la rinnovata, inequivoca presa di distanze dalle posizioni del Pcus, e un‘altrettanto decisa conferma delle peculiarità della linea dei comunisti italiani anche nella chiave internazionalista.
L’occasione dell’incontro (proposto da Krusciov) era propizia per verificare e cercare una spiegazione di molti interrogativi. Anzitutto quali fossero gli sviluppi della politica sovietica, e quali i rapporti all’interno del gruppo dirigente del Pcus. Come noterà poi Natta, il fatto che, dopo le insistenti sollecitazioni, Togliatti non avesse incontrato subito Krusciov in (insolita) partenza per l’Asia centrale, fu per il segretario del Pci non tanto il segnale di una mancanza inspiegabile di riguardo ma l’indice di una situazione non chiara, instabile, di un mutamento che forse veniva preparandosi e di cui riusciva tuttavia difficile valutare direzione e tempi. E un’eco, o comunque un risvolto polemico, si ritroverà nello stesso Memoriale quando, nello spiegarne il senso, Togliatti aveva scritto che esso mirava a “facilitare ulteriori scambi di idee con voi (Krusciov, nda), qualora questi siano possibili”.
Ad ogni buon conto Togliatti, che era partito per l’Urss controvoglia, sfruttava l’occasione dell’incontro non solo per verificare direttamente gli orientamenti del gruppo dirigente sovietico ma anche e soprattutto per affermare in modo compiuto, netto, non filtrato da diplomatismi, il pensiero del Pci di fronte a quella che, proprio alla vigilia di una conferenza dei partiti comunisti contestata dal Pci nella forma e nella sostanza imposte dal Pcus, si presentava come la più grave crisi del movimento comunista internazionale paragonabile, storicamente, solo alla scissione della Seconda Internazionale… il conflitto politico ormai aperto tra Urss e Cina. (…)
Non a caso, già nelle drammatiche ore dell’agonia di Togliatti, Luigi Longo era rimasto tanto colpito dal Memoriale (che Nilde, con l’aiuto di Marisa, stava ricopiando a macchina mentre il suo compagno era colto dal fatale malore nel campo dei pionieri, ad Artek), da ritenere che, nel prevedibile caso della morte di Togliatti, il documento dovesse essere subito reso noto, superando le esitazioni in primo luogo di Natta. E così avvenne prima con l’annuncio a San Giovanni, nel corso dei funerali, che esisteva “una memoria” (così la definì Longo); e poi con la pubblicazione integrale del testo su Rinascita. L’originale fu poi restituito a Iotti che lo serbava in una copertina di plastica trasparente. E perché Nilde potesse appunto farne talora dono, ne feci fare dagli uffici tecnici della Camera una perfetta copia-madre da cui centellinare solo all’occorrenza, e solo su sua disposizione, qualche esemplare”.
G. Frasca Polara, Nilde. Un ritratto appassionato di un grande giornalista che l’ha conosciuta da vicino, p. 11-12.
“D – Le avevo chiesto infatti se fosse felice, la risposta era stata una smorfia stanca.
R – Forse sono soddisfatta, perché la soddisfazione è una sensazione che nasce dal riscontro con valutazioni oggettive. Non avrei motivo di non essere soddisfatta, ma felice no. La felicità infatti appartiene a una sfera molto più soggettiva e intima. Sono serena, ho affetti solidi, ho Marisa, i suoi bambini, che sono meravigliosi bambini, gli amici che mi vogliono bene ma la felicità è un’altra cosa. In me è rimasta una ferita aperta. (…)
D – E’ mai tornata in Crimea?
R – In Russia sono tornata tre volte da quell’estate ma laggiù no, non avrei mai la forza di tornare a Jalta. Mia figlia che è psichiatra ha cercato di darmi spiegazioni di questa specie di blocco, io la capisco, ma quel blocco rimane, e forse è giusto così. Ciascuno deve reagire a modo proprio al dolore”.
V. Schiraldi, intervista con Nilde Iotti, “Epoca”, 28 luglio 1979
“Tre momenti essenziali costituiscono come i pilastri di sostegno della piattaforma politica presentata…: la raggiunta parità di salario per le donne lavoratrici, il pur parziale avviamento della pensione alle casalinghe, l’inizio di una giusta valutazione del lavoro delle donne contadine, per la prima volta introdotto nella legislazione italiana dalla recente approvazione al Senato del nuovo testo di legge sui contratti agrari. Per queste lotte e per questi successi è stato possibile al Congresso aggredire con vigore non solo la questione dell’istituto familiare così come è configurato ancor oggi dalla arcaica legislazione italiana, ma i più complessi temi della programmazione economica nei suoi rapporti con l’occupazione femminile e le strutture della società civile, dell’urbanistica e della scuola. Il Congresso ha collocato così l’UDI, con più evidenza che nel passato, come una forza politica che si misura sul terreno dei grandi problemi della società italiana in nome di una sua autonoma ed originale esigenza di progresso. (…)
Questo ci sembra essere l’elemento più positivo del VII Congresso dell’UDI. Ed è cosa di non trascurabile importanza nell’ambito della democrazia italiana. La presenza di un movimento femminile di massa capace di collegarsi in modo autonomo ai grandi problemi della società e di agire non solo per, ma con le grandi schiere delle lavoratrici, delle contadine, delle casalinghe, è fatto straordinario nella vita di un paese come l’Italia, dove per secoli la Chiesa ha rappresentato l’unica forma di collegamento delle donne con la società civile. Fatto straordinario non solo per lo sviluppo delle forme della democrazia, ma per la sua sostanza più profonda, perché esige di per sé il superamento dei limiti di una pura democrazia politica, in una democrazia che affondi le sue radici sul terreno sociale ed economico. (…)
Per questo ci pare che alcune osservazioni critiche possano essere avanzate.
Il Congresso ha visto predominare nel dibattito i temi relativi alle questioni dell’istituto familiare e in particolare al dibattuto e spinoso problema del divorzio: indice certamente positivo di una libertà e di una maturità di giudizio e al tempo stesso di una presenza assai qualificata di giuriste. Sono rimasti invece in ombra, come nello sfondo del dibattito, le questioni, pur vivamente poste nella relazione e ribadite nelle conclusioni, del rapporto donna-società, con tutto ciò che esso impone alle grandi scelte politiche del momento. Tanto più che nei congressi provinciali questo tema aveva costituito la parte dominante e più appassionata del dibattito. Inoltre nel dibattito sono risultate pressoché assenti le condizioni reali delle lavoratrici e i problemi che a esse si pongono nella difficoltà della congiuntura economica e una eco molto fievole hanno avuto le pur drammatiche lotte delle tessili e delle contadine. Difetto di direzione delle accese sedute congressuali o distacco dell’associazione dalle grandi masse lavoratrici del paese? Siamo convinte che si tratti della prima ipotesi. Tuttavia un campanello d’allarme è suonato e occorre fare molta attenzione: se non si vogliono mettere in forse le grandi conquiste di questi anni e il ruolo stesso dell’UDI nella battaglia politica generale. Conquiste e ruolo che possono essere mantenute solo se sempre più saldo sarà il legame con le schiere delle lavoratrici e con i problemi derivanti alla società italiana da una diversa condizione umana delle donne”.
Nilde Iotti, La donna nella società italiana, “Rinascita”, 13 giugno 1964, n. 24.
“La decisione è formalmente assunta nella direzione del 19 aprile 1961. Proprio in quell’occasione ci si può accorgere che la figura di Nilde, se era ‘ingombrante’ nell’Udi, non meno lo era fra i dirigenti comunisti. Amendola, nella relazione introduttiva, con la consueta schiettezza, arriva subito al punto: ‘Per la sostituzione della compagna Marcellino, il nome che ha riscosso maggiori consensi è quello della compagna Iotti’, e aggiungeva: ‘Va rilevato che per un’utilizzazione a più dirette responsabilità di partito della Iotti hanno pesato e pesano questioni personali e familiari già note ai compagni della Direzione’. (…) Immediatamente dopo interveniva Giancarlo Pajetta. Al giudizio di Amendola aggiungeva un’ulteriore riflessione non meno delicata: ‘Se siamo d’accordo di assegnare quest’incarico alla compagna Iotti occorrerà darle tutto l’aiuto necessario ed in modo permanente, ma occorre anche chiarire a lei che le riserve e le incertezze non derivano solo dalla sua situazione personale, ma anche dai suoi difetti che dovrà correggere e superare. E’ noto che il suo modo di lavorare ha dato modo a rilievi e critiche ed è in questa direzione che dovrà migliorare’. (…) Del resto le critiche di Pajetta e dello stesso Amendola erano condivise dalla maggior parte dei dirigenti presenti alla riunione: Roasio, Berlinguer, Bufalini, Serri, Alicata, Sereni, Terracini, Longo.
Al dibattito interviene anche Togliatti con poche frasi sintetiche e tutto sommato opache; comprensibilmente evita di fare qualsiasi riferimento all’incarico di Nilde e invita tutti a decidere in fretta. (…) Gli uomini che la stavano giudicando, in sintesi, non accettavano ancora le sue scelte di vita: essere una donna ‘libera’, felice nel privato e contemporaneamente autonoma, padrona di sé, nel suo lavoro. Tuttavia, nonostante le amarezze, anche quello scoglio sembrava ormai superato”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, pp. 203-4.
“La tematica emersa dalla preparazione della Conferenza… ha suscitato un dibattito importante con il movimento femminile della Democrazia Cristiana. Dico importante perché uno scambio di opinioni, per quanto contrastanti, fra i due partiti che orientano, sia pure in misura notevolmente diversa, la maggior parte delle donne italiane, è sempre un fatto politico non trascurabile.Tuttavia il dibattito è stato, da parte democristiana, un pò sconcertante. La dottoressa Falcucci e Paola Gaiotti, che se ne sono assunte l’onere, hanno scritto sulla Discussione e sul Popolo alcuni articoli che avevano tutta l’aria di un inno di vittoria. Le comuniste osano discutere della crisi attuale della famiglia in Italia e del dicorzio? Finalmente! Le democristiane potranno smascherarle come nemiche e distruttrici della unità familiare. (…) Per quanto ci riguarda, sentiamo fortemente la responsabilità che ci proviene dall’essere il Partito che, dopo la D.C., raccoglie nelle sue file il maggior numero di donne ed è perciò stesso impegnato ad una politica che esprima l’aspirazione di giustizia e di pace che da esse proviene. Ci auguriamo perciò che la polemica fra noi e le democristiane, che riprenderemo alla Conferenza, si sviluppi ampiamente, ma su un piano di maggiore impegno e serietà”.
Intervista con Nilde Iotti, L’Unità, Mercoledì 21 marzo 1962, p. 2
“Nella sua relazione introduttiva Umberto Cerroni aveva rivendicato l’integrale storicità dell’istituto familiare e quindi ipotizzato la sua possibile ‘scomparsa’ sotto l’urto delle trasformazioni sociali e del ricambio delle classi al potere. Nilde obiettava a questa disquisizione teorica con una dotta esegesi della dottrina cattolica sulla famiglia. Forse rispolverando i testi di teologia studiati alla Cattolica, si avvale della predicazione di San Paolo per sostenere che il cristianesimo delle origini non era velato dalla misoginia, e che anzi tende a valorizzare il ruolo della donna nella società del suo tempo. Quindi, quasi come un controcanto al relatore, gli ricordava: ‘abbiamo bisogno di conoscere con più precisione, oserei dire con più verità, la dottrina cattolica e cristiana in proposito in tutti i suoi aspetti, attraverso i vari momenti della sua storia’. In conclusione osservava che, dal suo angolo visuale, riusciva a intravedere l’affermarsi di una ‘moralità’ nuova basata sulla famiglia, concepita non più come ‘centro dei consumi’ – secondo il modello proposto dall’ideologia capitalistica – bensì fondata sui ‘sentimenti’ e sulla ‘comprensione reciproca’. Tant’è che, in aperta polemica con Cerroni, affermava: ‘Noi siamo di fronte non all’estinzione della famiglia, ma di un certo tipo di famiglia, alla trasformazione della sua profonda e intima natura, a quel salto di qualità che esalta i valori di libertà e di moralità dell’uomo.’ Su questi terreni – concludeva con ottimismo – il confronto con le cattoliche era possibile”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, p. 218
“E’ mia impressione che, salvo in qualche conferenza provinciale di rilievo e di organizzazioni particolarmente sensibili al problema, la realtà nuova del mondo femminile sia stata più ‘fotografata’ che compresa. Ci si rende conto che le donne lavorano più che nel passato, ma si è ben lontani ancora dal fare nostra una ‘dimensione umana’ diversa della donna che proprio scaturisce da questo lavoro. In altri termini la maggioranza del Partito continua a immaginarsi la mentalità e gli interessi delle donne come se esse continuassero a vivere nella loro casa, senza partecipare al processo produttivo del Paese. Sottolineo questo elemento che, almeno in me personalmente, solleva preoccupazioni serie, in primo luogo perché rende non dirò ‘estranea’ ma almeno ‘esterna’ al Partito tutta una nuova problematica femminile. In secondo luogo, non fa scorgere nella loro piena importanza i problemi nuovi che il lavoro delle donne suscita e all’interno del mondo produttivo e nel complesso della società. (…)
Un altro tema che ha sollevato un notevole interesse, seppur non in tutte le organizzazioni, è stato quello relativo al costume, alla famiglia e ai rapporti fra i coniugi. In modo particolare il divorzio è stato oggetto, in alcune città, di interessanti dibattiti. (…) Occorre notare, a tale proposito, che i dibattiti che ci sono stati si sono tenuti più nel Nord che nel Sud e tutti soltanto nelle città. (…) Siamo su un terreno per sua natura estremamente delicato e una meticolosa attenzione nel giudizio è più che doverosa, indispensabile”.
Intervista con Nilde Iotti, L’Unità, 21 marzo 1962, p. 2
“Giglia Tedesco ricostruisce così quel delicato passaggio: ‘Nilde Iotti divenne responsabile delle donne comuniste, dove marcò subito la novità. La Commissione femminile divenne un centro di elaborazione sui temi delle donne. In precedenza quel compito era stato assolto dal movimento. Nilde nel ’62 assume in toto la politica dell’emancipazione che comportò l’attenzione a tematiche inedite. Nel ’62 tutta la tematica del doppio lavoro, nel ’65 per la prima volta venne posto il problema del divorzio e del nuovo diritto di famiglia. Insomma si arricchì e si modificò l’impianto della politica delle donne’”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, p. 203
“Afferma la compagna Rodano che sulla questione femminile ‘doppiezza c’è stata nel nostro partito e ancora si manifesta non sulle questioni di principio dell’emancipazione femminile… ma sul modo di sviluppare praticamente una politica di emancipazione…’
E’ esatta questa affermazione? A me pare di no, e mi sembra di poter affermare che in molti compagni e compagne il dissenso, anche se si manifesta nella pratica, è di fatto sulla sostanza stessa di questo aspetto della politica del partito. (…) Il problema è squisitamente politico e dipende non da difetti organizzativi ma da deficienze politiche e semmai i primi sono la dimostrazione evidente delle seconde. (…) Ogni comunista pensa a una società più giusta ove non vi siano più i padroni delle fabbriche e della terra e dove ogni lavoratore sia arbitro del proprio lavoro e della propria vita. Non rientra però sempre in questa visione il problema di una società socialista che, in quanto tale, risolve non soltanto le disparità di classe ma in primo luogo il problema della libertà e dell’eguaglianza di tutti i cittadini, uomini e donne e perciò stesso riscatta dalle condizioni di oppressione e di inferiorità oramai secolari la metà del genere umano e cioè le donne.
Perché dunque questo grande ideale non è entrato ancora a far parte della coscienza dei singoli compagni e perciò del partito?
Le cause sono molte e complesse. Innanzi tutto la ‘giovinezza’ di un movimento di emancipazione femminile, che parta dai ceti popolari e investa con la forza che da questi deriva, tutta la società. Il cammino delle idee, anche se idee di progresso, è sempre lento e la conquista delle coscienze non è cosa facile.
A me pare tuttavia che le cause di queste incomprensioni siano essenzialmente due.
1. Le donne nella stragrande maggioranza non sono lavoratrici, nel senso sociale ed economico della parola.
2. La tradizione e le condizioni di oppressione e di inferiorità della donna nella società hanno un peso anche nel partito. (…)
Ciò deriva dal costume, dalla tradizione del nostro paese, da una legislazione tra le più chiuse, dalla potente influenza della chiesa cattolica, esercitata dal clero italiano, tra i più conservatori e tradizionalisti, incapace di concepire i rapporti fra gli uomini e in particolar modo fra gli uomini e le donne, nella società e nella famiglia, se non in termini di autorità. A questo si aggiunga una condizione economica pesante, quasi sempre insufficiente e assai spesso misera della maggioranza delle famiglie italiane (…). Tutte queste questioni, il costume e la condizione economica, non sono separate le une dalle altre, si influenzano a vicenda, assai spesso costituiscono il sostegno l’una dell’altra e contribuiscono a mantenere ferma la situazione della donna. La concezione che da tale situazione deriva è un forte ostacolo ad una comprensione piena della politica di emancipazione femminile e non potrebbe essere diversamente in un partito come il nostro, ove la presenza di imponenti masse popolari porta necessariamente nel partito stesso i riflessi della concezione e della vita popolare attuale. Questi ostacoli sono tuttavia superabili in sede politica quando vi sia una piena e aperta comprensione della funzione liberatrice della classe operaia nei confronti di tutta la società e perciò della politica del nostro partito. (…)
Tuttavia è chiara ancora nella maggioranza dei nostri compagni e compagne la funzione della classe operaia nei confronti del complesso della società e dei gruppi che la compongono? A mio avviso no, ed è da ricercarsi in una concezione limitata e ristretta della lotta della classe operaia una delle cause di una certa doppiezza politica denunciata nel partito e della fatalistica attesa dell’ora X. In una simile concezione la causa dell’emancipazione femminile appare al di fuori e non interessante la lotta della classe operaia. (…)
Credo tuttavia vada affermato che sarebbe errato se ci limitassimo a porre soltanto le questioni economiche che sono alla base di una simile azione e cercassimo di suscitare la lotta delle donne soltanto in nome dei vantaggi economici che dal successo di tale lotta ad esse deriverebbero. A mio avviso, se si vuol fare delle donne un ‘alleato organico’ della classe operaia; se si vuole che esse divengano soggetto di un movimento rivoluzionario e non solo riserva o appoggio, occorre parlar loro in primo luogo dei loro problemi di donne, della loro posizione nel lavoro, nella società e nella famiglia, della ingiustizia che pesa su di esse e in nome dei loro diritti, dello sviluppo della loro personalità, rivendicare le trasformazioni dell’economia italiana e le riforme di struttura che stanno alla base di questa trasformazione. (…)
Il problema dell’emancipazione rende dunque necessaria la creazione, attraverso le lotte, di una coscienza dei diritti femminili. Limitare la nostra azione al campo se pur vasto del lavoro e dell’organizzazione della vita sociale ed economica sarebbe perciò errato, soprattutto in un paese come l’Italia. Noi siamo, purtroppo, fra i paesi più arretrati nelle tradizioni e nel costume e questo colpisce in special modo le donne. (…) Tutte poi, le giovani e le anziane, a qualsiasi ceto sociale appartengano, ad eccezione di limitate minoranze, pensano che dopo il matrimonio una donna non debba più lavorare. E non solo perché la società non offre possibilità di essere ad un tempo mogli, madri e lavoratrici se non con gravi sacrifici, ma perché la tradizione, il costume, la concezione corrente vogliono la donna sposata tra le pareti domestiche a curare e servire marito e figli. (…) Anche la cultura è raccomandabile alle donne solo in quanto costituisce in una società moderna un ornamento di più. Che debba invece servire ad andare avanti, a dare col proprio lavoro un contributo agli uomini e alla società, ad affermare la propria personalità è cosa del tutto secondaria e bisogna anzi stare attente a non divenire invise perché troppo ‘pedanti’ o indipendenti. (…)
La nostra battaglia deve svolgersi perciò anche sul terreno del costume con altrettanto vigore che sul terreno economico. (…) Si obietta qualche volta che le donne non sentono questi problemi, che non li comprendono, che addirittura ne sono turbate. Ciò non è esatto. Esiste nel cuore della maggioranza delle donne, anche se conservatrici nella mentalità, un malcontento confuso, un’insoddisfazione non sempre cosciente della propria vita. Perché questi sentimenti acquistino chiarezza e si tramutino in coscienza occorre una lunga opera del movimento popolare e in particolare del nostro partito. A questo proposito giova ricordare che neppure l’operaio, per il solo fatto di essere operaio, acquista coscienza dei propri diritti e dei propri compiti senza l’opera di una avanguardia organizzata che è il partito della classe operaia”.
Nilde Iotti, Valore autonomo della lotta per l’emancipazione femminile, “Rinascita”, anno XIII, n. 10, ottobre 1956.
Poco dopo la conferenza, Iotti interviene su “Avanguardia”: “Aveva ragione il compagno Berlinguer quando diceva che il problema della donna si risolve soltanto in una società socialista, in una società di liberi e uguali. Però mi pare che nella lotta che viene condotta oggi per il lavoro e per il progresso si compiano di fatto dei grandi passi sulla via dell’emancipazione stessa. Ciò deve essere vero anche per quello che riguarda i nostri rapporti personali e sentimentali, creando di fatto nella società italiana un costume, una mentalità più progredita e civile. (…) Secondo me per una giovane comunista arrivare al matrimonio non può essere il solo scopo della vita. (…) Non possiamo considerare il matrimonio come fine a sé stesso, non possiamo pensare che una volta sposate tutto è sistemato nei nostri affetti, nella nostra famiglia perché bisogna stabilire all’interno della famiglia rapporti umani diversi dal passato, non più basati su motivi di opportunità economica e sociale, ma sul rinnovarsi dei sentimenti che legano l’uomo alla donna e la donna all’uomo, proprio attraverso lo sviluppo continuo della personalità di entrambi. Allora soltanto l’amore può animare tutta la nostra vita”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, p. 156-7.
A ridosso della conferenza, “Avanguardia” pubblica la lettera di una giovane iscritta milanese, “Perché non sarò a Roma”: “Con semplicità e chiarezza Rosanna enumerava gli ostacoli che le impedivano quel viaggio. E li elencava nell’ordine: ‘Le persone più care: mio padre, mia madre, i miei fratelli, il mio fidanzato. (…) Ho ceduto per la pace familiare. Il mio fidanzato non sarà geloso, i miei non trepideranno a pensarmi sola e sperduta nella metropoli’. (…) Per poi chiedersi: ‘Che cosa conta una ragazza?’ E rispondersi senza incertezze: ‘Nella pratica la ragazza è, oggi come ieri, la serva di casa. (…) Vorrei sentire il tuo parere su questa questione: non solo sui nostri diritti più importanti – il diritto al lavoro, al salario – ma su questi diritti apparentemente piccoli che sono poi quelli della cui mancanza si finisce per soffrire di più – il diritto al rispetto degli altri. Il diritto al pensare ed agire secondo coscienza, e non secondo i pregiudizi di cui sono ancora piene le teste’”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, p. 155.
“E’ vero che la Chiesa e l’Azione cattolica esercitano una grande influenza e pressione sulle donne, ma lo fanno soprattutto con la loro rete di organizzazioni assistenziali e solidaristiche. Naturalmente l’Udi non ha i mezzi per fare altrettanto, ma può fare molto per creare rapporti di amicizia e di fiducia unitaria su una base di questo tipo. Oggi l’Udi svolge un’attività prevalentemente politica. Essa deve invece svolgere un’attività quotidiana rivendicativa e solidaristica per le grandi masse”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, p. 151.
“D – Com’era Togliatti?
R – Allegro, a casa era tanto allegro, in un modo che forse nessuno riuscirebbe a immaginare. C’era in lui una serena gaiezza che contrastava con l’immagine che di solito gli veniva attribuita. Forse potrebbe parlarne meglio Marisa, voleva molto bene alla figlia che aveva adottato, amava tanto giocare con lei. Tra noi raramente correvano discorsi di politica, ma io il riflesso degli eventi spesso tormentati di quegli anni glielo leggevo sul volto, affioravano nella caduta improvvisa del silenzio. Ricordo il periodo dei fatti di Ungheria, non parlava, non sorrideva nemmeno a Marisa, aveva portato altrove, con i suoi pensieri, una tristezza terribile. Noi sapevamo. Poi finalmente riprese il suo tono consueto, comprensivo ed umano che faceva di lui l’uomo dalla ‘briglia lunga’ in casa e al partito, perché gli altri avessero il tempo di capire e lui di guardare più lontano”.
V. Schiraldi, intervista con Nilde Iotti, “Epoca”, 28 luglio 1979.
“Una strana famiglia – aveva detto lei una volta – in cui non c’era un vero marito, non c’era una vera moglie, e non c’era una vera figlia, ma che pure era una famiglia unita e felicissima”.
G. Frasca Polara, Nilde. Un ritratto appassionato di un grande giornalista che l’ha conosciuta da vicino, p. 22.
“Togliatti vergò un biglietto per Nilde: ‘Che ne diresti di un’adozione?’. ‘Sì, ma che sia una bambina’, rispose Iotti”.
G. Frasca Polara, Nilde. Un ritratto appassionato di un grande giornalista che l’ha conosciuta da vicino, p. 10.
“D – Lei aveva sofferto molto di questa ostilità?
R – Provi a essere, per almeno 10 anni, in un’organizzazione politica, il sospettato, la persona su cui si addensano tutti i sospetti. Ci vogliono le spalle buone per reggere.
D – Aveva mai pensato di rinunciare alla politica per questo?
R – No. Anzi, questo fu proprio l’argomento di una delle prime lunghe spiegazioni con Togliatti. Gli dissi che non avrei mai accettato, per nessuna ragione, di lasciar la lotta politica per il nostro rapporto. ‘Nella vita potrei accettare di tutto salvo che di non lavorare, di non essere me stessa’ gli avevo detto. Questo d’altra parte corrispondeva anche alla sua immagine di donna”.
Chiara Valentini, Intervista con Nilde Iotti, “Panorama”, 13 aprile 1981.
“D – Pensi che nella severità di questi giudizi pesasse soltanto il moralismo degli anni ‘50 o anche il fatto che in certi gruppi chiunque si avvicini al capo diventa una specie di pericolo?
R – C’è certamente anche questo, però, vedi, tu dici l’atteggiamento moralistico degli anni ‘50. Io non oso chiamarlo moralistico. Era la morale del tempo e andare contro corrente quando tu avevi l’ambizione di fare politica, e per di più il tuo compagno era un capo politico, richiedeva in partenza altissimi prezzi da pagare, a tutti i livelli.
D – Ma al di là delle difficoltà interne al partito, la gente, fuori, come si comportava con te?
R – Non ci furono in verità grandi attacchi contro di me. Pensa che si era in piena campagna elettorale, nel ‘48. Ci si poteva aspettare da parte della Democrazia Cristiana una grande offensiva. Che invece, salvo qualche eccezione, non si verificò. Ero comunque preoccupatissima di quanto poteva accadere. E con me, anzi, certi più di me, lo erano i compagni della mia federazione i quali ad un certo punto avevano addirittura deciso di non candidarmi alle elezioni. La cosa di per sé mi lasciava abbastanza indifferente, anche se dispiaciuta. Ero sostenuta, a quel tempo, da altre e più forti certezze: avrei fatto altri lavori, non mi sembrava così necessario fare la deputata”.
D – E le donne della tua zona come erano con te in quei giorni?
R – Venivano giù dai paesi circostanti e mi portavano enormi fasci di peonie raccolte nei loro giardini di campagna. Erano fiori bellissimi, bianchi e lilla. Non mi dicevano altro. Solo un giorno, una di loro, quasi come portavoce di tutte le altre, mi chiese: ‘Come sta Togliatti?’ E con questo volevano farmi sapere non solo che erano a conoscenza del mio legame con lui, ma anche che lo consideravano legittimo ed acquisito”.
Gianna Schelotto, intervista con Nilde Iotti, “Amica”, 11 dicembre 1986.
“‘Meglio dai preti che nella scuola fascista’, aveva sempre raccomandato il padre”.
Frasca Polara, Nilde. Un ritratto appassionato di un grande giornalista che l’ha conosciuta da vicino, p. 4.
“Si discuteva, nella ‘commissione dei 75’ che preparava la bozza della Carta, di un passaggio (poi sparito con un voto dell’Assemblea) dell’art. 106, quello sull’accesso in magistratura. Una prima versione prevedeva che ‘anche le donne’ potessero partecipare ai concorsi ma solo ‘nei casi previsti dalle norme sull’ordinamento giudiziario’. Ce n’era a josa per far sbottare il socialista Ferdinando Targetti, più tardi e a lungo vicepresidente della Camera: ‘Chiaro, qui c’è il pensiero e la finalità di limitare l’ammissione delle donne in magistratura. Io invece non vedo alcuna ragione per quella che è una trasparente limitazione dell’accesso delle donne. Di più, non si può da un lato ammettere la presenza, graditissima e utilissima, di tante egregie colleghe nella Costituente, ammettere che la donna posa salire su una cattedra universitaria, e dall’altra negare che la donna abbia le attitudini necessarie per diventare anche consigliere di Cassazione!’. Ribatté il democristiano Giovanni Leone, poi abile presidente della Camera, infine discusso presidente della Repubblica: ‘Già l’allargamento del suffragio elettorale alle donne costituisce un primo passo (…) ma la loro partecipazione illimitata alla funzione giudiziaria non è per ora da ammettersi. Magari sia ammessa al tribunale dei minorenni: sarebbe per esse una ottima collocazione. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni’.
Ma altre due democristiane, Maria Federici ed Angela Gotelli (sarà un caso che, come la Nilde era stata staffetta nella Resistenza, così fossero anch’esse due ex partigiane “bianche”?), ribatterono, l’una furiosa per quel riferimento alla ‘tradizione’, e l’altra: ‘Voi volete lasciare indietro le donne!’. Interruzione di altro costituente DC, Giuseppe Codacci Pisanelli: ‘No, è una questione di resistenza fisica, le donne si stancano di più…’. Allora Iotti reagì: ‘Motivi stupefacenti! Se una donna ha la capacità di arrivarci, e sono convinta che ce l’abbia, essa deve poter conquistare, al pari dell’uomo, i più alti gradi della magistratura, senza alcun discrimine’. E avvertì: ‘Attenzione: abbiamo appena approvato nella prima parte della Costituzione una norma-chiave: che tutti i cittadini non solo sono uguali ma che tutti, donne e uomini, possono accedere a tutte le cariche pubbliche’. Il principio del libero accesso delle donne in magistratura sarà infine pienamente accolto dall’Assemblea. Ma, per passare dalla teoria ai fatti passeranno parecchi anni: solo nel 1963 le donne cominceranno ad entrare effettivamente nei ranghi della magistratura. E della diplomazia: anche qui escluse per quasi vent’anni dalla Farnesina”.
G. Frasca Polara, Nilde. Un ritratto appassionato di un grande giornalista che l’ha conosciuta da vicino, pp. 2-3.
“D – L’impatto con Roma e il Palazzo… Voglio dire: una giovane provinciale come lei, forse un po’ impacciata, forse un po’ maldestra…
R – Oh, sì: molto impacciata e molto maldestra. E piena di soggezione anche. E di pudori…”.
Lina Coletti, Nostra signora di Montecitorio, “L’Europeo”, 14 settembre 1990.
”La manifestazione è dedicata ad un pubblico femminile ampio, ma ‘è frequentata per la maggior parte da donne del ceto medio’, come non manca di sottolineare la Federazione di Reggio in un rapporto indirizzato alla direzione comunista. La giornata, di intrattenimento e di impegno, parte dalle sezioni e dai comuni della provincia per convergere al centro della città. Si balla, si assiste a proiezioni cinematografiche, si partecipa a gare sportive, il tutto offerto gratuitamente alle donne presenti. Si possono visitare stand tematici dedicati alla scuola e all’artigianato femminile, compreso un atelier della moda nel quale sono esposti modelli di abiti, cappelli e lavorazioni in cuoio di produzione locale. Nella serata, a conclusione della festa, tutte le partecipanti riceveranno in dono una rosa rossa, insieme a materiale di propaganda e alla possibilità di ascoltare un comizio di Nilde Iotti che parla di ‘Donne e Costituente’. Di nuovo il tema che le sta a cuore è quello della famiglia: ‘Famiglia e società sono la stessa cosa – afferma la professoressa Iotti – l’una non può sussistere senza l’altra’”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, pp. 51-2.
“D – Che cosa ricorda della prima volta che è stata eletta deputato?
R – Che non andai a controllare il numero delle preferenze. Che vuole, lo spirito del tempo. S’era nel 1946, io avevo fatto la mia campagna elettorale soprattutto tra le donne che votavano allora per la prima volta. Avevo altro cui pensare. E, infatti, che ero stata eletta me lo disse un socialista, Alberto Simonini, bloccandomi mentre in bicicletta stavo andando ad una riunione: ‘Sono stato eletto anch’io!’ fece, e aggiunse sorridendo: ‘Con tutte le preferenze che hai preso, potresti anche farmi i complimenti’. Ecco cosa ricordo”.
Stavolta Iotti i voti li prende eccome e finisce davanti al segretario della Federterra di Reggio, Silvio Fantuzzi, con 15.936 preferenze.
Donatella Moretti, intervista con Nilde Iotti, “Bolero”, 26 settembre 1984.
“Le grandi città, come Milano, erano strette in una morsa terribile dal punto di vista delle condizioni di vita. Fu un grosso fatto il modo come vennero accolti nelle case dei contadini, ma anche nelle case di tutti: degli operai, anche della borghesia, della piccola borghesia; ne rimase un pò fuori la grande borghesia, naturalmente. C’era una gara a volere questi bambini per ospitarli durante l’inverno; poi li hanno mandati via carichi di roba, ingrassati”.
N. Caiti, R. Guarnieri, La memoria dei “rossi”. Fascismo, Resistenza e ricostruzione a Reggio Emilia, Ediesse, Roma 1996, p. 639.
“Devo dire che mi fece una enorme impressione (sarà stato i primi di ottobre o di novembre, faceva già freddo, del 1943) vedere uno molto giovane, un ragazzo che io conoscevo, di 28-29 anni, che era stato ucciso dai fascisti e lasciato così sulla strada. Era uno che era appena uscito dal carcere, perché comunista, e liberato durante il periodo badogliano”.
Grazia Valci, Incontro con Nilde Iotti, Speciale GR2, 29 giugno 1984.
“Io lo capii allora cosa significava il legame col proprio paese. L’impronta che il paese ti lascia addosso… Io che già frequentavo alcuni ambienti antifascisti… Ricordo un calzolaio, che finiva spesso in galera perché considerato un comunista sovversivo… ‘Son tutti pazzi, Nilde’, mi diceva. ‘Ci porteran tutti alla rovina’. Lo diceva già nel ‘37, nel ‘38. E nonostante quest’impressione di potenza che ancora ci alitava intorno… Erano antifascisti anche molti dei miei amici. E tuttavia non furon loro ad influenzare le mie scelte. Furono altre ragioni. Più sentimentali, se vuole. Quel dover campare con poche lire, portando addosso, per otto anni, dal ‘35 al ‘43, lo stesso cappotto ricavato da un cappotto di mio padre… Eppoi quei giovani arruolati, e destinati così spesso a morir lontani… E dopo ancora i primi morti – erano comunisti, quelli che ho visto – per le strade…”.
Lina Coletti, Nostra signora di Montecitorio, “L’Europeo”, 14 settembre 1990.
“Come tanti della mia generazione, è stato con la guerra, con il crollo di tanti miti, dinanzi a un Paese sconvolto e senza speranza. Fu allora che avvertimmo la necessità di cercare strade nuove che ci facessero riacquistare l’indipendenza e la libertà. Ci aiutarono gli uomini che il fascismo aveva arrestato, rinchiuso in carcere, mandato al confino. E per primi – per quanto riguarda la mia esperienza – i comunisti”.
Catherine Spaak, Preferisco pentirmi che rimpiangere, Intervista con Nilde Iotti, Supplemento a “Corriere della Sera”, 3 maggio 1980.
“Un pomeriggio mi portò lungo i binari della ferrovia, là dove aveva lavorato tanto tempo prima che lo epurassero per antifascismo, e disse: ‘Vedi questi due mattoni? Qui sotto ho nascosto le tessere d’iscrizione al sindacato di tutti i miei compagni. Quando sarà finita la lotta, può darsi che io non ci sia più, e allora toccherà a te disseppellirle’”.
R. Ghiringhelli, La formazione culturale di Nilde Iotti tra Reggio Emilia e Milano, in Nilde Iotti. Presidente. Dalla Cattolica a Montecitorio, a cura di Imprenti, F., e Magnanini, C., Biblion, Milano 2010, p 2 (da intervista su “Oggi”, 26 ottobre 1983).
“Successe che Togliatti, venuto a Modena in seguito all’eccidio, decise con Nilde Iotti di aiutare una delle famiglie coinvolte. La scelta cadde su di noi. Il tramite fu l’onorevole Gina Borellini, una partigiana medaglia d’oro alla Resistenza, che in guerra aveva perso un arto. Anche dietro spinta dei miei fratelli e delle mie sorelle, fu stabilito, con una specie di accordo reciproco, che io andassi a Roma a studiare. Quello dello studio era un mito dei miei fratelli che non avevano potuto andare oltre la quinta elementare: erano consapevoli che andare a scuola era il mezzo per cambiare la propria condizione. L’idea che io potessi studiare fu anche di incentivo per mia madre che era restia a lasciarmi andare. In realtà, l’allontanamento è poi stato relativo, sono sempre stati mantenuti molti contatti, sia perché io tornavo regolarmente a Modena, sia perché qualcuno della mia famiglia veniva a Roma. Da allora ho sempre vissuto con Palmiro Togliatti e Nilde Iotti. Prima che io compissi i 18 anni, Togliatti riuscì, con un’azione legale, a darmi il suo cognome. Infatti io mi chiamo Malagoli Togliatti. La scelta era caduta su di me perché io ero la più piccola e avevo appena cominciato la scuola, ero in prima elementare. Fui certamente privilegiata. In ogni caso, i rapporti tra le due famiglie sono rimasti sempre molto stretti. Anzi, paradossalmente, per Nilde, specie dopo la morte di Togliatti, i Malagoli sono stati quasi l’unica famiglia di riferimento”.
Romina Velchi, Mio fratello, un operaio che aveva fatto cose straordinarie. L’eccidio di Modena nei ricordi di Marisa Malagoli, sorella di Arturo e figlia adottiva di Palmiro Togliatti, “Liberazione”, 9 gennaio 2000.
“Uscivamo insieme quella mattina del 14 luglio, verso le undici e mezza, Togliatti ed io dal Parlamento. La seduta non prestava grande interesse, ed entrambi, di comune accordo, l’avevamo lasciata per recarci alla sede del Partito. (…) Parlando tranquillamente fra di noi giungemmo alla piccola porta di via della Missione (…). Avevamo percorso soltanto pochi metri e all’improvviso qualcosa di pauroso sembrò stagnare nell’aria offuscandone la luce; che cosa erano quei due, tre scoppi che risuonavano alle nostre spalle, così vicini a noi? Vidi Togliatti cadere a terra; mi precipitai, mi inginocchiai accanto a lui. In quell’istante un’ombra scura ci fu accanto – io intravidi la canna lucente di una pistola. Mi gettai d’istinto sul petto di Togliatti e forse questo fece deviare, all’ultimo istante, la mira dell’assassino e colse il nostro compagno solo di striscio, sul fianco. Allora gridai con tutta la mia voce. E’ strano, ma nel ricordo, tutto ciò è avvenuto come se fosse isolato dal tempo e dallo spazio. Io non so quanti attimi siano trascorsi o quante ore; la vita intorno si era come fermata: non c’era il rumore della città operosa: c’era solo un grande silenzio e, in quel silenzio, quegli scoppi paurosi sul nostro compagno caduto. Il suono stesso della mia voce mi ridiede la sensazione della realtà, e quel grande silenzio si ruppe. Io vidi allora il volto dell’assassino quando due carabinieri, che solo al mio grido si erano mossi, lo portarono via. Togliatti era a terra con gli occhi chiusi, inerte, ‘morto’. Io non posso dire ciò che ho provato allora: dopo abbiamo tutti sofferto e sperato, ci pareva che la nostra sofferenza fosse anche una forza che potesse salvare il nostro compagno. Allora ero sola e lo pensavo morto: ebbene, non mi vergogno di dirlo, io ho visto morire mio padre e mia madre, ma non ho sofferto così, non mi sono sentita così sola e disperata e impotente come in quell’istante. Misi la mano sotto la sua testa e la sentii bagnarsi di sangue. La ritrassi adagio e in quell’istante Togliatti aprì gli occhi: erano i suoi occhi penetranti, tranquilli di sempre: gli occhi di Togliatti ‘vivo’ che mi guardavano sereni. Mi sentii all’improvviso, dopo l’orribile angoscia, una strana calma dentro: lo ‘seppi’ in quel momento, nel modo più sicuro, che Togliatti sarebbe vissuto, che quell’uomo che per i lavoratori e la nostra patria aveva combattuto e vinto tante battaglie, per i lavoratori e per l’Italia avrebbe vinto la più difficile battaglia: avrebbe vinto la morte”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, pp. 123-4, n. 132.
“La guerra ha scosso e sconvolto i rapporti economici e sociali così profondamente come mai era avvenuto nella storia del nostro Paese. Una grave crisi travaglia la Nazione e ha le sue prime manifestazioni – e talora, alcune delle più gravi – nel campo stesso della vita familiare. Seriamente minacciata è la sana moralità del nostro popolo, che nella famiglia aveva particolarmente trovato sino ad ora le sue manifestazioni. Naturale è d’altra parte che che nella unità familiare cerchino i singoli il primo aiuto a uscire dalla tragica situazione in cui la guerra li ha lasciati, e che in essa e attorno ad essa prima e più agevolmente che in altre sfere si ricostituisca quell’atmosfera di solidarietà a cui tutta la rinascita della Nazione dovrà essere ispirata. La famiglia si presenta quindi ora più che mai come il nucleo primordiale su cui i cittadini e lo Stato possono e debbono poggiare per il rinnovamento materiale e morale della vita italiana e importanza fondamentale acquista la tutela da parte dello Stato dell’Istituto familiare.
E’ perciò indispensabile che la Repubblica italiana, oltre a regolare con leggi il diritto familiare, affermi nella Costituzione stessa il proposito di rafforzare la famiglia. (…)
Ma anche per un altro motivo è necessario occuparsi nella Costituzione della famiglia. S’impone infatti anche in questo campo un’opera di svecchiamento e di rinnovamento democratico, conforme allo spirito che deve ispirare la nuova Costituzione e tutta la vita italiana del nuovo regime repubblicano.
Nella vecchia legislazione e nel vecchio costume del nostro Paese la famiglia ha mantenuto sinora una fisionomia che si può definire per certi aspetti antidemocratica. Le condizioni economiche dei cittadini non essendo per tutti tali da garantire la possibilità di formarsi una famiglia seguendo la naturale aspirazione umana unita all’impulso del sentimento, le questioni d’interesse prevalevano in troppi casi in modo tale da togliere alla famiglia stessa il carattere di unione liberamente consentita.
Uno dei coniugi poi, la donna, era ed è tuttora legata a condizioni arretrate che la pongono in stato di inferiorità e fanno sì che la vita familiare sia per essa un peso e non fonte di gioia e aiuto per lo sviluppo della propria persona. Dal momento che alla donna è stata riconosciuta, nel campo politico, piena uguaglianza col diritto di voto attivo e passivo, ne consegue che la donna stessa dovrà essere emancipata dalle condizioni di arretratezza e inferiorità in tutti i campi della vita sociale e restituita a una posizione giuridica tale da non menomare la sua personalità e la sua dignità di cittadina.
A tale emancipazione è strettamente legato il diritto al lavoro da affermarsi per tutti i cittaidni senza differenza di sesso. Solo realizzando nella pratica il suo diritto al lavoro la donna acquista quella indipendenza, base di una vera e compiuta personalità, che le consente di vedere nel matrimonio non più un espediente talora forzato per risolvere una situazione economica difficile e assicurarsi l’esistenza, ma la soddisfazione di una profonda esigenza naturale, morale e sociale, e lo sviluppo e il coronamento, nella libertà, della propria persona”.
Nilde Iotti, La famiglia e lo Stato, “Rinascita” anno III, n. 9, settembre 1946.
Esigenza che si giocava, all’interno della Costituente, anche e soprattutto sull’articolo 7, inerente il recepimento dei Patti lateranensi: “Fu molto interessante perché i contrari a votare l’articolo 7 erano i vecchi compagni della clandestinità… ma noi giovani non riuscivamo a capire la carica che mettevano questi nostri vecchi compagni nel sostenere queste tesi che a noi parevano anticlericali. Noi avevamo vissuto il Concordato e non era successo niente! Noi avevamo fatto la guerra di Liberazione; c’eravamo trovati nelle Canoniche assieme a quelli delle Fiamme verdi… a discutere cosa si doveva fare, o c’eravamo trovati in una casa di contadini comunisti e nulla ci aveva impedito di fare tutto questo”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, p. 83.
“Durante la riunione, lui fece un’introduzione politica e poi passò a parlare di come dovevano essere i comunisti. Disse che non era ammissibile che i comunisti non sapessero cosa fosse l’assemblea costituente, come affermava Nitti. Disse tutto ciò che bisognava leggere e studiare, in particolare le costituzioni che dessero indicazioni sulla democrazia dei paesi che le avevano promulgate. Poi passò a parlare dei comportamenti più spiccioli. ‘Mi raccomando ai compagni’ disse ‘di venire vestiti correttamente. Che non si vedano in giro maglioni a collo alto o comunque abbigliamenti sciatti e disordinati.’ E a quel punto, fece una cosa che mi fece avvampare: ‘Quella compagna’ disse indicandomi ‘è vestita in modo molto adatto a questo luogo e a questo ruolo’. Avevo un vestito blu con un colletto bianco ricamato”.
Gianna Schelotto, intervista con Nilde Iotti, “Amica”, 11 dicembre 1986.
“Nonostante i toni propagandistici utilizzati per festeggiare la vittoria della Repubblica un malumore serpeggiava fra i gruppi dirigenti. Lo testimonia un documento approvato dalla Direzione, ‘riservato – non destinato alla pubblicazione’ che il Pci indirizza ai suoi organismi periferici. Nelle elezioni del 2 giugno non è stato raggiunto neppure uno degli obiettivi prioritari che ci si era proposti: comunisti e socialisti insieme non hanno conquistato la metà dei deputati eletti all’Assemblea; il Pci non è riuscito a diventare il secondo partito italiano. I risultati dei nuovi rapporti di forza si sono già visti in molti campi. (…). Alla lunga elencazione degli errori commessi in campagna elettorale, la direzione fa seguire un altrettanto lungo elenco dei capisaldi del ‘partito nuovo’: organismo di massa, democrazia progressiva, apertura verso i ceti medi, gli intellettuali, le donne e una dura condanna dell’estremismo. (…) Pochi giorni dopo una lunga lettera del segretario, con l’autorevolezza che gli è propria, rilancia quei temi con puntiglio e respiro. Lo scritto – una sorta di catechismo laico in cui sono elencate colpe e virtù – è indirizzato ai segretari delle Federazioni provinciali, e, a differenza del documento precedente, viene diffuso alla stampa. Alle riflessioni della direzione, Togliatti aggiunge un approfondimento sensibile e in qualche modo controcorrente, se non altro per la centralità e il risalto che gli attribuisce. La sua attenzione, non nuova peraltro, è dedicata alle donne, che rappresentano un ‘tesoro politico inestimabile’ tanto che ‘il rapporto tra donne e uomini deve tendere ad essere uguale nella massa degli iscritti, negli attivisti e nei quadri’.
La valorizzazione di questo soggetto ‘nuovo’ della politica serve al segretario per introdurre due temi chiave per il partito che ha in mente: la messa al bando delle ambiguità – un atteggiamento che più tardi lo stesso Togliatti definirà con il termine di ‘doppiezza’ – e una sorta di ‘rivoluzione culturale’ che riesca ad amalgamare e a tenere in equilibrio il lavoro di due generazioni, quella degli anziani ‘rivoluzionari professionali’ e quella dei giovani che si sono affacciati alla politica con la lotta di Liberazione”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, pp. 69-70.
“Ricordo anche la fretta, la furia quasi con cui, all’alba, mamma cominciò a prepararsi per andare al seggio appena si fosse aperto. ‘Potrebbe capitarmi qualcosa…’ So bene di quale pasta fosse l’emozione di mia madre. Non era in questione il pur tanto importante voto per la Costituente (e men che mai la mia possibile elezione). La consapevolezza di contare, di contare per la prima volta in una scelta storica, mamma l’aveva rivelata parecchie volte, quella notte. ‘Il mio voto – diceva quasi con sgomento – pesa per mandar via il re’. (…) Ecco perché questo vivido e tutto domestico ricordo assume per me, oggi, un valore emblematico e generale: prima ancora dell’avvento della Repubblica, la stessa ravvicinata prospettiva della sua conquista rendeva anche inconsciamente le italiane e gli italiani fieri e padroni – e sino in fondo – delle loro decisioni. (…) Per mia madre, e per tutta la sua generazione, questa esclusione dal voto era stata vissuta duramente e acutamente: s’intrecciava con tutte le lotte politiche e sociali di almeno un cinquantennio, lei aveva visto e sofferto il voto per censo (quando neppure gli uomini di casa sua votavano, perché erano poveri), lei aveva vissuto la conquista nel ’13 del voto per tutti gli uomini, ma solo per essi. Per la nostra generazione era tutto diverso: il nostro posto, la nostra emancipazione ce l’eravamo conquistata nella Resistenza e con la lotta di Liberazione; il voto era per noi non solo un diritto ma anche un dovere. (…) Andammo dunque a votare appena aperto il seggio, quella mattina, io e la mamma: non le era ‘capitato’ nulla che le impedisse di esprimere, con gioia quasi infantile, la sua volontà. Non sono passati secoli, da allora, ma solo quarant’anni. Mi chiedo se a tutti coloro che leggono – soprattutto ai giovani – abbiamo sempre saputo garantire una solida memoria storica. Per esempio, sembra naturale oggi che le donne votino (e per giunta non a 21 ma a 18 anni). Eppure quel 2 giugno del ’46…”.
Nilde Iotti, Donne al primo voto. Mia madre non dormì, L’Unità, 1 giugno 1986.
“La prima manifestazione legale fu l’8 marzo ’46, e fu anche il mio primo comizio in piazza. Delle riunioni ne avevo già fatte tante, il primo comizio che feci su piazza D’Armi – dal balcone del Teatro Ariosto – fu in questa occasione: c’era la piazza piena di donne! Ma di donne sul serio, cioè non soltanto comuniste, socialiste… donne giovani – c’era questa grande ondata di giovani nella politica – ma anche non giovani. Allora era questo l’elemento più importante: perché avere le giovani – eravamo noi giovani, avevamo vent’anni tutte! – ma a vedere delle donne, cioè vedere le nostre madri che venivano alla manifestazione dell’8 marzo come festa della donna era un fatto che, mi ricordo, mi colpì enormemente. Mi dava l’idea di un risveglio”.
N. Caiti, R. Guarnieri, La memoria dei “rossi”. Fascismo, Resistenza e ricostruzione a Reggio Emilia, Ediesse, Roma 1996, p. 639.
“Confesso che al primo vederla – così giovane, forse non dimostrava neppure i suoi 23 o 24 anni che mi disse che aveva – mi colse una certa perplessità sulla sua idoneità o maturità ad affrontare i complessi e difficili problemi che stavo per proporle. Mi avevano parlato di lei come di un’insegnante molto ligia al suo dovere, affettuosa con i suoi allievi, della vita dei quali si interessava molto, ma anche rigorosa e attenta. Ma quello che avrebbe dovuto fare con noi era di tutt’altro tipo. Peraltro quella mia perplessità scomparve d’incanto quando alle mie prime domande mi sentii rispondere con garbo e con parole appropriate ad esprimere le sue idee: erano osservazioni in genere consenzienti, ma talvolta anche di dissenso espresse con franchezza, seppure col riguardo dovuto… Ogni cosa era argomentata con appropriata dialettica sul metodo da seguire per esplicare utilmente il suo compito, che lei stessa giudicava difficile, ma che in ogni caso doveva essere il più possibile interpretativo della volontà popolare; ma diceva tutto ciò con l’aria o la sicurezza di una Donna ‘fatta’, cioè matura ed esperta delle esigenze delle famiglie più disagiate in quei tempi duri. Pensai subito che lei parlava con me come se discettasse con una scolaresca”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, pp. 33-4.
“Io mi ricordo di aver sentito Radio Londra che trasmetteva il discorso di Togliatti a Napoli, il famoso discorso ai quadri della federazione napoletana; e di aver avuto per la prima volta l’idea di una prospettiva nazionale, perché bisognava fare così; lasciamo da parte tutto quello che ci divide; tu sei un cattolico, io sono un vecchio socialista, tu sei un monarchico, non ha nessuna importanza; adesso sbattiamo via questi e poi dopo decidiamo il resto”.
N. Caiti, R. Guarnieri, La memoria dei “rossi”. Fascismo, Resistenza e ricostruzione a Reggio Emilia, Ediesse, Roma 1996, p. 636, cit. in Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, p. 22.
“Che cosa ricordo della ragazza che sono stata? E’ passato molto tempo da allora; e poi la mia adolescenza l’ho vissuta in un periodo tormentato, in pieno fascismo, e la mia giovinezza ha coinciso con la guerra e con la lotta di liberazione. Anni difficili, in cui, se così si può dire, il privato ci era proibito, proibito dai fatti, dalla realtà oggettiva; … era, sì, soffocato. Una cosa che faceva parte delle speranze del domani, delle speranze da conquistare in un tempo diverso in cui, finalmente, ci sarebbe stato posto per noi stessi”.
Intervista al “GR3”, 27 dicembre 1979.
“Il coraggio? (…) Credo che il coraggio si sia sempre preteso da tutti. Per quanto poi riguarda mia madre, lei deve sapere che mio padre è morto quando io avevo 14 anni, andavo ancora a scuola, cominciavo le scuole superiori, e mia madre aveva una pensione di 242 lire al mese e con quello bisognava vivere e non si viveva affatto, era impensabile viverci. Io, quindi, aiutavo la famiglia dando lezioni private ai ragazzini delle medie e delle elementari. Affrontare la vita in quelle condizioni richiede sempre coraggio”.
Intervista al “GR3”, 27 dicembre 1979.
“Mia madre aveva frequentato solo la prima elementare. All’inizio della seconda, un giorno tornò a casa piangendo perché non riusciva ad imparare la tabellina del tre. Mia nonna allora le disse: ‘Per essere una donna sai anche troppo’, e da allora la tenne a casa. Ma forse proprio per questa precoce privazione, la mamma conservò sempre una grande passione per la lettura. Leggeva tutto. E ricordo le sere d’inverno, quando lei leggeva e io e papà l’ascoltavamo assorti, come tra i momenti più caldi e protettivi della mia vita. All’età di dieci anni io conoscevo già, attraverso le letture della mamma, I promessi sposi”.
Gianna Schelotto, intervista con Nilde Iotti, “Amica”, 11 dicembre 1986.
“Quando si è poveri le rinunce nascono sempre con noi. La mia famiglia era molto povera, mio nonno era ferroviere, aveva troppi figli e altrettanti problemi e a malapena sapeva mettere la firma. Ma le privazioni cui eravamo addestrati sono sempre state solo materiali, altrove sapevamo scoprire la ricchezza. (…) Tutto ciò mi è rimasto dentro e appartiene ai miei ricordi di ieri ma anche alle consapevolezze di oggi, forse tante volte mi ha aiutato a capire. Mi ha dato una memoria che non ho mai cercato di perdere, il senso di rinunce a volte penose ma ineluttabili e reali. Pensi, in tutta la mia giovinezza ho avuto solo tre cappotti, e l’ultimo, quello che ho indossato dai sedici ai venticinque anni, l’ho perfettamente davanti agli occhi. Io ero ragazza e crescendo cominciavo a confrontarmi con altre ragazze, con i primi sguardi degli uomini, e il cappotto mi si rimpiccioliva addosso, bisognava adattarlo a me come io mi andavo adattando a lui”.
V. Schiraldi, intervista con Nilde Iotti, “Epoca”, 28 luglio 1979.
“Ho sentito intorno a me, in questo luogo, uno spirito, un senso di rivolta contro l’oppressione, uno spirito di resistenza e di capacità di lotta che sono stati, senza dubbio, determinanti nelle mie scelte politiche”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, p. 13.
“Mio padre era prampoliniano e riformista, anche. Camillo Prampolini, rammenta? Grosso avvocato, con molta terra, di famiglia borghese, ricca, che aveva venduto gran parte dei suoi beni per dar fondi al partito… Mi parlava spesso di lui, mio padre. E della rivoluzione d’ottobre. E degli aiuti, raccolti per quella rivoluzione… Lui mi parlava e io gli dicevo: ’Là si son mossi, però: non han solo predicato, e invece voi… I fascisti v’hanno bastonato e voi avete subito’… C’era sempre un attimo d’imbarazzo, a quel punto, ma la conclusione era però sempre la stessa: ‘Ma là comandano gli operai…’”
Lina Coletti, Nostra signora di Montecitorio, “L’Europeo”, 14 settembre 1990.
“Più approfondivo i libri fondamentali della religione e più mi accorgevo che la mia razionalità era più forte della fede”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020 (1° edizione 2013), p. 8.
“E finalmente anche per lei stava diventando realtà il monito accorato che suo padre non si stancava di ripeterle: ‘Loro sanno’, alludendo ai ‘borghesi’ e a chi aveva in mano le leve del potere. (…) E nella sua tesi la studentessa Iotti non dimentica quell’esortazione, tanto che, nel descrivere l’opera riformatrice dei duchi d’Este, di soppiatto, inseriva nel racconto un suo pensiero: ‘non si curò invece l’educazione del popolo. Quell’educazione che è il primo gradino per compiere un vero miglioramento fra le classi povere’”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, p.10.
“Nilde Iotti lo conosceva. Lei stessa aveva frequentato la libreria Prandi, centro di aggregazione antifascista, soprattutto socialista. Era stata presente ad alcune riunioni dense di pathos per l’atmosfera di segretezza cospirativa che si respirava, per gli scenari nuovi e sempre più concreti che si delineavano, ma anche per il rituale che apriva quegli incontri. (…) Ogni appuntamento, infatti, era accompagnato da una colonna sonora, sempre la stessa: l’ouverture 1812 scritta da Cajkovskij per onorare l’impero e l’eroismo russo, capace di sconfiggere la grande armata di Napoleone”.
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2020, p. 12.
“Lui che era figlio d’un cantoniere e faceva il capo deviatore delle ferrovie di Reggio Emilia. Lui che era socialista. Anzi: che del socialismo aveva un senso quasi mitico. E lo vedeva, lo viveva, come una sorta di religione… Ricordo la camera da letto: con un pannello sopra la testata che era stato distribuito dal partito: ‘Lavoratori di tutto il mondo unitevi’… Cristo come precursore d’un idea d’eguaglianza, non so se afferra…”
Tutte le citazioni dalle interviste provengono da Roberta Cairoli, Debora Migliucci (a cura di), Istituzioni, diritti e passioni. Nilde Iotti e le parole della politica. Interviste 1979-1993, Biblion Edizioni, Milano 2012.
Lina Coletti, Nostra signora di Montecitorio, “L’Europeo”, 14 settembre 1990.
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